"Verranno tempi, nella storia dell'umanità, in cui ogni mistero sarà svelato, in cui le radici di ogni leggenda vedranno la luce. Allora ai nostri occhi compariranno civiltà perdute, edifici modellati dal tempo; le nostre orecchie udranno suoni antichi, lingue sconosciute, nomi dimenticati. O, forse, la Terra morirà e porterà con sé i suoi segreti, alla fine del Tempo, e tutto sarà dimenticato... per sempre."
"Il sentimento più forte e più antico dell' animo umano è la paura,
e la paura più grande è quella dell' ignoto"
Horror è una parola di origine latina e significa orrore; ma a quale orrore si ispirano gli scrittori del genere per realizzare i loro libri? Mentre la paura è un campanello d’allarme primitivo che permette ad ogni animale di allontanarsi da una fonte di pericolo, l’orrore è un sentimento più complesso, prettamente umano, che coinvolge l’intelletto e che atterrisce a tal punto da poter arrivare ad impedire la fuga. Si può avere paura di un insetto e quindi fuggire o schiacciarlo; oppure si può averne orrore, esserne non solo terrorizzati, ma vederlo con occhi che vanno oltre la fisicità, immaginando tutti i modi in cui quell’insetto potrebbe nuocere, anche quelli impossibili. L’orrore nasce dall’ignoto, dall’immaginazione di quel che potrebbe essere e che spesso non è; terrore di qualcosa che non solo potrebbe far male al nostro corpo, ma che potrebbe corrompere la nostra anima.
Molti sono gli scrittori di libri horror, ma pochi sono quelli capaci di creare un universo in cui l’Orrore regni sovrano. Uno di questi ultimi è Howard Phillips Lovecraft, nato nel 1890 a Providence, una cittadina degli Stati Uniti. Entrambi i suoi genitori furono ricoverati in manicomio, in tempi diversi; la madre fu molto oppressiva con lui, al punto che arrivò a non permettergli di finire di frequentare le scuole superiori. Si sposò e divorziò. Fu uno scrittore prolifico e pare che la mole di lettere che scrisse a varie persone (tra cui molti scrittori) sia enorme. Morì a 47 anni a causa di un tumore all’intestino.
E’ stato soprannominato “Il solitario di Providence”, “Il Maestro”; ha creato un universo in cui gli dei non si curano quasi per nulla del destino dell’umanità, in cui l’uomo è solo il più giovane essere senziente apparso in ordine di tempo. Quello creato da Lovecraft è un universo in cui la terra è stata raggiunta in epoche preistoriche da esseri provenienti dallo spazio siderale e la cui intelligenza e le cui intenzioni sono talmente aliene per l’umanità, che sarebbe molto meglio rimanere all’oscuro della loro esistenza.
Ogni singola entità aliena viene solo suggerita nei racconti e nei brevi romanzi di Lovecraft: l’orrendo Cthulhu, che dorme nelle profondità dell’oceano e che si insinua nei sogni degli esseri umani, inondando le loro fragili menti col suo alieno richiamo; l’innominabile Yog-Sothoth, che si intuisce essere un’enorme ameba perlescente e la cui sola vista può procurare la follia; il raccapricciante Nyarlathotep, il Caos Strisciante, il cui unico scopo è quello di ridurre l’intero universo ad una massa ribollente, viva e fertile di puro caos. Sono solo tre degli innumerevoli esseri partoriti dalla fervida immaginazione di Lovecraft e che hanno ispirato films, canzoni e un gioco di ruolo, The Call of Chtulhu, edito dalla Chaosium.
Lovecraft è riuscito a creare un universo che ancora oggi ispira e affascina migliaia di giovani e meno giovani in tutto il mondo, un universo in cui i veri protagonisti sono loro, i Grandi Antichi, i mostri dal nome impronunciabile, detentori di verità troppo grandi per l’intelletto umano, troppo aliene, così difficili da elencare e spiegare in un semplice articolo, perché i romanzi e i racconti di Lovecraft più che leggerli si sentono, si immaginano.
Pensando all’universo da lui creato riesco a vedere l’uomo ancor prima del maestro, il sognatore ancor prima del mito, ad immaginarlo seduto da solo in un campo, di notte, con lo sguardo rivolto alle stelle, a farsi domande senza nemmeno cercarne le risposte, poiché lui sapeva che tra quei freddi e distanti bagliori c’era qualcosa, lui che amava l’astronomia e che pubblicò a soli 16 anni sul Tribune di Providence una rubrica che trattava di fenomeni astronomici. Tra quei soli lontani, in quel silenzio siderale fatto di plasma, polvere, luce e buio, ci sono i nostri sogni riflessi, le nostre fantasie, i nostri incubi; un intero universo, infinito, alieno, che a guardarlo troppo a lungo si rischia di dimenticare tutto ciò che ci circonda; che, a pensarci si rischia di perdere l’intelletto. Allora perché lui e tanti altri grandi scrittori del genere fantastico, che sondano gli abissi del cosmo e dell’anima, non si sono persi tra le spire della follia? Perché si adoperano a trasmetterci, attraverso le loro opere, la consapevolezza che spazio e tempo sono più di quel che appare, che se ci si riduce a credere solo all’hic et nunc si rischia di perdere gran parte del fascino di questo strano, assurdo universo?
Lovecraft, come tanti altri scrittori del fantastico, aveva un segreto: lui sapeva come muoversi al confine tra il reale e l’immaginario, tra la follia e la saggezza, senza mai cadere, senza mai sbilanciarsi, mirabile equilibrista sul filo dei sogni e dei desideri, perché, per quanto la realtà possa reclamare violentemente la nostra attenzione, la fantasia opporrà altrettanta resistenza, sotto forme diverse, in tempi diversi, con diversi linguaggi; due immortali titani in lotta fino alla fine del Tempo.