27.05.2010
Lugano, irresistibile crescendo .
Dagli inizi con Carettoni segnati da qualche difficoltà al titolo griffato da Joe Whelton
L’apporto del coach statunitense è determinante. Ottimo il suo lavoro a livello fisico, mentale e di spogliatoio.
di Dario Bernasconi.
Titolo doveva essere, nelle speranze di inizio stagione espresse dai dirigenti, e titolo è stato. Il settimo sigillo nel palmarès svizzero appartiene ai bianconeri, dunque, al termine di una stagione decisamente lunga – l’introduzione del turno ad orologio l’ha allungata di 11 partite – e non facile. Anzi, a tratti estremamente complessa, vuoi per le scelte societarie, vuoi per le scelte tecniche.
Si era iniziato con una struttura già valida e sotto la guida di Renato Carettoni. Un inizio di stagione non facile, quando si devono integrare cinque giocatori nuovi ma, spesso, non si ha pazienza. Carettoni, a ogni buon conto, non si era mai nascosto: «Con una squadra simile non posso che puntare a vincere: se non ce la farò, sarà solo colpa mia».
Carettoni era comunque arrivato nei quartieri alti e, complice un calendario più ostico rispetto all’Olympic, stava a inseguire di un niente. A dicembre si decide che Walton è la “mela marcia” dello spogliatoio e viene tagliato. Entra in linea di conto Stein a partire dal nuovo anno: intanto era già arrivato Mihajlovic, via Turchia, a dare maggior forza ai lunghi. Ma in questo marasma di “faccio, non faccio, dico non dico” non poteva succedere altro che un cambio di timoniere. Le scuse, diciamolo, erano perfino divertenti “Carettoni ha problemi di lingua, non si sa far capire dagli americani, si deve cambiare” (ma un corso di lingua inglese non costa meno di un nuovo coach?). Ovviamente la risposta sta altrove perché anche altrove stava la verità. Braglia in primis, con Cedraschi, puntano su una “vecchia” conoscenza del basket svizzero, Joe Whelton. Joe sta al caldo in Florida e la chiamata dei bianconeri lo coglie di sorpresa. Il progetto gli sembra buono, la società con le idee sufficientemente chiare per tentare la scalata al titolo. E così torna sulla panchina, dopo la decennale esperienza in Germania, e prende le misure alla squadra. Chiede almeno un mese per capire con quali giocatori si lavora e un altro mese per dare un gioco: nessun proclama ma un onesto programma di lavoro. E Joe comincia a lavorare sul piano fisico, sul piano mentale e sullo spogliatoio. Ci sono alcune primedonne con la quali bisogna far convivere il tutto, trovare le motivazioni di gruppo per poter vincere. Non sufficientemente coperto nel ruolo di play con il solo Stein, chiama Brown, un suo ex. E così completa il mosaico di una squadra che è votata a vincere. E vince, stravince anche, si porta in testa alla classifica e non la molla più.
A fine febbraio il primo appuntamento, visto che la Coppa era già andata ai quarti in quel di Birsfelden. In semifinale i Tigers spazzano via un Vacallo ai minimi termini e si giocano la Finale contro l’Olympic. Tutto bene sino a tre minuti dalla fine, con il Lugano a condurre. Poi gli sprechi e, infine, un fischio impossibile, anziché dei possibili supplementari, condannano alla sconfitta, con Draughan a mettere 2 su 2 dalla lunetta a sirena pronta. Brucia come non mai: un primo titolo che sfugge, per un nulla. Ma è anche una sconfitta che, a suo modo, aiuterà a crescere. Whelton dopo due mesi, a marzo, guarda tutti dall’alto in basso: è stato di parola. Questo Lugano, pur con molti alti e bassi difensivi è una macchina da canestri, perennemente o quasi sopra gli 80 punti. Il primo posto concede la quinta sul proprio campo. Per mettere fuori Ginevra nei quarti, bastano 120 minuti, troppo grande il divario fra le due squadre.
Le quattro gare di semifinale sono molto diverse fra loro. Nelle due in casa, Abukar e compagni spazzano gli Starwings: 31 punti in gara 1, 22 in gara 2.
Ma gara 3 è un’altra cosa. Per il semplice fatto che la “fisicità” (eufemismo) dei padroni di casa mette la museruola a tutti. I Tigers sono in affanno e si complicano la vita giocando come se fossero otto che s’incontrano per la prima volta. Malgrado il bailamme, la classe di Efevberha emerge, risale fino a un -1 che sa di sorpasso in arrivo: invece arriva un altro fischio assassino che rimette avanti il Birstal. E l’ultimo disperato tiro di Efevberha manda tutti a gara 4. La gioca Walter Bernasconi, con coach Whelton a letto. Una gara in parte fotocopia ma con un esito diverso: stavolta le individualità trovano uno spunto decisivo e si va in Finale.
Gara 1 è vinta: ma si scialacquano ben 19 punti di margine, per chiudere di 2 fra patemi d’animo e oscenità in palle perse e tiri forzati. Quando si va a gara 2, tutti ricordano il +19: ergo, se non si spreca, si vince facile. I giocatori non ci sono, se non fisicamente: euforia, inesperienza e ingenuità, oltre a certe amenità (si fa per dire) che tralasciamo, creano il black out più assoluto: -33 e i raffreddori diventano brividi.
Il calendario (assurdo) dice 2 volte a Friburgo. In gara 1, quello che Draughan si era preso dalla lunetta a Montreux, lo lascia sul ferro della Sainte Croix: non così Efevberha, che manda tutti ai supplementari. La forza dei bianconeri emerge, i burgundi sono alla canna del gas e si va a gara 4.
E l’undicesima gara di playoff dei Tigers è quella che porta il 7° titolo in bacheca, il primo dell’era Cedraschi. Una vittoria che i bianconeri cuociono a fuoco lento, facendo lavorare molto i burgundi, mettendoli fino a -16. Poi si distraggono quell’attimo che concede a Polyblank e a Draughan dai 3 punti, di tornare a sperare e con loro tutto il popolo biancoverde, all’ultima gara alla Sainte Croix.
Ma la forza del collettivo e la precisione dalla lunetta consegnano ai bianconeri il titolo. Una vittoria costruita con il gioco d’assieme, con tutti i protagonisti a canestro, a dare quello che Whelton chiedeva: «Voglio vedere la squadra vincere, perché sappiamo cosa è il gioco di squadra: in gara 4 non dovremo dimenticarlo». E nessuno l’ha fatto.
by La Regione Ticino