Casa, la Consulta boccia gli sconti per chi denuncia gli affitti in nero
L'inquilino che denuncia la mancata registrazione del contratto non avrà trattamenti di favore sul canone. La doccia fredda arriva dalla Corte costituzionale: per i giudici le sanzioni sono spropositate rispetto alle violazioni fiscali. Il caso esploso dopo uno sfratto per morosità a Salerno. Ora il Fisco deve re-inventarsi le armi contro gli affitti in nero
di ANTONELLA DONATI
Lo leggo dopo
Casa, la Consulta boccia gli sconti per chi denuncia gli affitti in nero
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MILANO - Il padrone di casa affitta in nero? Niente più supersconto sul canone all'inquilino che denuncia la mancata registrazione. La norma antievasione, contenuta nel decreto sul federalismo fiscale è incostituzionale perché viola i diritti dei proprietari e impone una sanzione sproporzionata rispetto alla violazione fiscale. Una vera e propria doccia fredda, con una censura senza appello, che arriva dalla Corte costituzionale che con la sentenza 4/2014 pubblicata oggi ha cancellato con un tratto di penna quella che veniva considerata come una delle armi più efficienti per la lotta agli affitti in nero.
La disposizione cancellata. La questione portata all'esame della Consulta riguardava la legittimità delle disposizioni contenute nell'articolo 3 del decreto in materia di federalismo fiscale municipale, che consentivano all'inquilino di registrare il contratto al posto del proprietario, in caso di mancato rispetto dell'obbligo di registrazione da parte del proprietario stesso. A fronte della registrazione effettuata dall'inquilino la legge riconosceva il diritto ad avere un canone annuo pari al triplo della rendita catastale rivalutata, a prescindere da qualunque accordo fosse stato preso nel contratto in nero. Inoltre il contratto, qualunque fosse stata la sua durata originaria, si sarebbe automaticamente trasformato in un contratto con durata di quattro anni +4. Queste stesse disposizioni si applicavano in caso di contratti registrati per un importo inferiore a quello pattuito e quindi richiesto
dal proprietario. La norma era stata inserita dal governo proprio per favorire l'emersione degli affitti in nero, e finora era stata applicata soprattutto per le locazioni per gli studenti universitari. Fin da subito però erano state sollevate questioni di illegittimità, legate soprattutto alla possibilità del proprietario di dare o meno lo sfratto per morosità a fronte del pagamento di un canone pagato in misura inferiore rispetto a quello originariamente concordato. Proprio una situazione di questo genere è stata quella portata all'esame della corte costituzionale.
La vicenda che fatto scoppiare il caso. A fronte di un'intimazione di sfratto per morosità, l'inquilina di un alloggio a Salerno, si era opposta alla richiesta di lasciare l'alloggio sottolineando che il contratto di locazione, in vigore dal 1° febbraio 2011, era stato registrato in ritardo a cura della stessa conduttrice in data 5 ottobre 2011. Conseguentemente il canone da lei dovuto, ricalcolato in base a quanto previsto dalle norme in questione, sarebbe stato pari a 224 euro e non a 950 euro, come stabilito dal contratto originario. Il tutto a far data dal bimestre ottobre-novembre 2011, mentre per i mesi precedenti non era dovuto alcun canone, in quanto il contratto non registrato doveva considerarsi nullo. Ovviamente la proprietaria si era opposta contestando la legittimità delle disposizioni, ottenendo su questo un primo giudizio positivo.
Le questioni di legittimità. Secondo il Tribunale, infatti la norma risulta incostituzionale in quanto le sanzioni fiscali non possono comprimere oltre ogni limite il diritto di proprietà attraverso misure che si presentano sproporzionate e limitative della autonomia contrattuale, per di più in assenza di un interesse pubblico, dal momento che dopo l'avvenuta registrazione tardiva del contratto, è già stato effettuato il pagamento della sovraimposta dovuta per il ritardo. In più si sarebbe dovuto mantenere in vita un contratto che il locatore non avrebbe mai sottoscritto a quelle condizioni, costringendolo a sopportare un canone irrisorio per la potenziale durata di otto anni (quattro più quattro). Il tutto in evidente contrasto con l'articolo 1419 del codice civile, a norma del quale la nullità parziale non travolge l'intero contratto solo se risulti che i contraenti lo avrebbero comunque concluso anche senza la parte nulla, cosa impossibile in questa situazione.
Un autogol per il Fisco. Il governo si era difeso sostenendo che la norma impugnata conteneva, effettivamente, un meccanismo particolarmente severo, ma efficace, funzionale agli interessi del fisco, e non irragionevole. Un'obiezione, questa, la quale i giudici avevano replicato che l'importo eccessivamente limitato del canone calcolato sulla base di quanto previsto dalle norme in realtà aveva come effetto di ridurre la base imponibile del tributo persino nelle ipotesi in cui sia stato registrato un contratto di locazione per un canone inferiore a quello effettivo, ma pur sempre superiore a quello "sostitutivo". Insomma un vero e proprio autogol del fisco. Inoltre questa disposizione risultava in contrasto con lo statuto dei diritti del contribuente, testo che esclude espressamente che la violazione di norme tributarie possa determinare la nullità del contratto.
La decisione della Consulta. Dubbi di costituzionalità, peraltro erano stati espressi anche da altri tribunali di fronte a situazioni analoghe e con identiche considerazioni. Una linea sposata in pieno dalla Corte costituzionale. Secondo la sentenza che ha bocciato le norme, inoltre, sarebbe anche irragionevole l'applicazione delle medesime sanzioni sia nel caso di omessa registrazione del contratto sia in caso di registrazione di un contratto con canone inferiore a quello effettivo. Quindi stop alle disposizioni e addio alle denunce. Il Fisco dovrà trovare armi più adatte per stanare gli evasori.
(14 marzo 2014)
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