Gli Alieni terapia dell'immaginario Occidentale

(richard)
00mercoledì 20 maggio 2009 13:47
E’ forse la prospettiva di una chiarezza che non c’è, di una forma di conoscenza terapeutica a ridosso di un boom cognitivo senza precedenti, ma la figura dell’alieno è stata la più stressata valvola di rappresentazione dell’immaginario nella nostra civiltà moderna da due secoli a questa parte. Onore a Herbert George Welles, padre della fantascienza, che nel 1897 pubblica il suo romanzo più famoso, “La guerra dei mondi”, critica indiretta al colonialismo europeo ed alla sua violenta presunzione di poter governare ovunque alla luce della propria superiorità tecnologica. Superiori erano gli alieni, più alti, forti, tecnologicamente potenti. Tanto di cappello anche agli illustratori della prima edizione londinese che uscì nel finire del XIX secolo: in copertina erano disegnati cervelloni striscianti dai mille tentacoli orali invadono una terra desolata a cavallo dei loro veicoli, i tripodi, simili a dischi volanti con capsula sporgente di pilotaggio: sembrano i satelliti odierni.

La sfida di una rappresentazione esorcistica dei propri limiti, dei propri parametri di civiltà nei confronti di un diverso, di un abitante dell’altrove, è stata oggetto del cinema hollywoodiano e delle sue politiche culturali del secondo dopoguerra. Nel 1950 Irving Pichel gira “Uomini sulla luna”, dove tre arditi statunitensi si alleano per organizzare una spedizione sulla luna prima dei sovietici. Primo film politico sul “viaggio nello spazio”, è nella fiction che gli americani pronosticano e vincono la guerra tecnologica aggiudicatasi dal vero in quel 20 luglio 1969 per mezzo del razzo vettore “Saturno 5”. Quel film portò a casa il riflesso della guerra contro i Russi ed un immaginario sullo Spazio che verteva sugli antagonisti di quello scontro. Non è azzardato affermare che gli alieni nel cinema americano, negli anni ’50, erano comunisti. “Ultimatum alla terra” (Robert Wise, 1951) parla di un alieno, Klaatu, che arriva sulla terra portando un piccolo dono. Quando un nostro spaventato soldato apre il fuoco, dal disco volante esce un gigantesco robot, Gort, che annienta le forze militari circostanti con un raggio ad energia nucleare. Klaatu decide allora di ispezionare il nostro pianeta e lascia in sorveglianza Gort: per tutto il film, l’agghiacciante presenza di quell’automa dai poteri nucleari tiene a bada le intenzioni militari del Governo. Resosi conto dopo alcuni diplomatici tentativi che sul nostro pianeta è impossibile aprire un dialogo se non accordandosi con parti di fazioni in guerra permanente, Klaatu avvisa i nostri Governatori: se non cessano subito lo stato di belligeranza, in quanto pericoloso per l’ordine del sistema galattico, sarà costretto ad annientare l’intero pianeta Terra. Klaatu riparte con questo monito, un ultimatum di terrore che lascia senza parole, così come “senza conclusione” è il film, che si chiude proprio dopo la pronuncia dell’ultimatum. “Ultimatum alla terra” è un film sulla deterrenza nucleare, quella che poi determinerà la guerra fredda tra Stati Uniti e Russia. Se il film di Wise parla di una sovversiva diplomazia di guerra da parte di un invasore, con “La cosa da un altro mondo” (Christian Nyby, 1951) succede il contrario: il problema inizia in fase di missione esplorativa per ispezionare un oggetto non identificato atterrato in Antartide. Alla riscoperta di un corpo congelato di un extraterrestre, per errore un nostro soldato pone su di esso una coperta termica, riportandolo in vita. E’ il primo film su un mostro venuto dallo spazio: la cosa, l’invasore d’oltreoceano, è un nemico crudele e sanguinario. Non sanguinari, ma “manipolatori” mentali sono invece gli alieni che atterrano attraverso enormi bacilli ne L’invasione degli ultracorpi (Don Siegel, 1956). Anch’esso parabola anticomunista, il film è un’inquietante e suggestiva invasione della coscienza degli abitanti di una tranquilla cittadina americana. La “civilizzazione aliena” conduce ad uno stato di terrore quotidiano dove l’ordine politico e sociale viene sovvertito da un principio piatto di uguaglianza e indifferenza.

Servirà un regista dichiaratamente “di sinistra” come John Carpenter per ribaltare l’immagine aliena nel cinema americano. Nel suo film “Essi vivono” (1988), un operaio disoccupato di Los Angeles viene in possesso di occhiali da sole magici che permettono di vedere “attraverso” la realtà. Una volta indossati, scopre che la nostra società è colonizzata dagli alieni, i volti dei quali si celano dietro le persone che ci circondano, e molti dei quali allacciano rapporti con “umani” magnati e grandi industriali. Il protagonista legge messaggi subliminali dietro le banconote, i cartelloni pubblicitari, la televisione: “obbedisci”, “guarda la tv”, “il denaro è il tuo Dio”. Se dunque gli alieni negli anni ’50 erano comunisti, nella spietata disamina di John Carpenter essi sono capitalisti, affaristi liberali. Eppure, era proprio un virus che attaccava il “libero mercato” ad essere il soggetto dello stupendo “Alien” di Ridley Scott (1979, avente due sequel: “Aliens”, 1986, di James Cameron, e “Alien3”, 1996, di David Fincher). Suggestiva macchina per mettere spavento, il film di Ridley Scott sfocia nell’horror nel momento in cui rappresenta la figura dell’ignoto in quella deforme figura aliena dal cervello enorme. L’astronave da carico Nostromo, durante una sosta fuoriprogramma in un pianeta sconosciuto, viene invasa da una creatura aliena che semina terrore nell’equipaggio. Sono in errore i commercianti, che deviano le proprie operazioni di trasporto, o è sotto accusa la terra straniera dove il commercio, il progresso, viene portato ma rimane vittima di un attacco sanguinoso?

La trilogia di Scott – Cameron – Fincher introduce la caratterizzazione mostruosa nella figura dell’alieno. Se prima gli alieni erano “umanoidi”, razze meglio sviluppate o eleganti figure diplomatiche come il Klaatu di “Ultimatum alla terra”, negli ultimi due decenni la sua figura s’è intrisa di una mostruosità informe e disgustosa. Ciò è probabilmente dovuto all’assenza di una minaccia territoriale o politica ben definita nella società della violenza di fine secolo. E’ anche vero, però, che a tale palinsesto di orrore mostruoso c’è stato un antipodo di “non rappresentazione” che ha visto nella figura dell’alieno una semplice entità, un punto interrogativo, un “x-file”. Nel 1998 fu Barry Levinson, regista sempre attento alle politiche culturali e comunicative del mondo americano, a portare sul grande schermo un romanzo di Michael Crichton del 1987, “Sfera”. Nel film di Levinson, l’alieno è una creatura informe, para-dimensionale, che non ha fisicità se non nella sua essenza perfetta, che è appunto quella di una sfera. Thriller suboceanico, “Sfera” sembra essere il punto di non ritorno del nostro immaginario sull’alieno: esso c’è, agisce sulle nostre menti e sulle nostre percezioni spaziotemporali, ma non si lascia interpretare, scrutare con dovizia. Del resto, giusto un anno prima, il film “Contact” di Robert Zemeckis indagava proprio questa tematica aliena: le forme di vita aliene si captano, ma non si mostrano a noi, né si presentano sul nostro territorio; cercano soltanto di instaurare una forma di comunicazione fredda con le nostre migliori menti. Film sulla percezione, sul fuoricampo, sulla poetica del sentire che suggestiona il senso della vista, “Contact” era uno degli ultimi disillusi interpreti di una minaccia che non c’è, di un diverso che vuole conoscerci. Tutto il resto, nel terzo millennio, è storia. Buona parte del mondo occidentale è oggi in guerra. Hollywood riporta sul grande schermo la minaccia in tutta la sua mostruosità. Profetico, al finir del secolo, fu Roland Emmerich, che col suo fantacolosso “Independence Day” (1996) ridiede forma e volto alla figura aliena in un periodo in cui questa sembrava andarsi spegnendo. Mostruosi, telepatici e polipeschi alieni invadono l’America e il resto del mondo. Il film, americocentrico più che mai, patriottico, ottimista, deridente del pacifismo e dell’ecologia, porta la guerra agli alieni alla ribalta. Si apre un decennio di lotte al cinema, remake, guerre, contatti, culminato col catastrofico “Cloverfield” (2008) del geniale J.J.Abrams, produttore di Lost. Manhattan, sede ideale di un mostro dalle dimensioni sproporzionate (Godzilla insegna), viene invasa da un distruttore senza nome che sovverte la stabilità dei civili. Brand multimediale della vendita del terrore, in rete, al cinema, sulla carta e in televisione questo mostro non si è visto se non nella sua uscita al cinema. Un film potente, che congiunge l’avvento del terrore con la sua visione “in diretta”, così come gli strateghi dell’11 settembre hanno mirabilmente messo in atto con la regia degli attentati, lasciando un gap di 18 minuti tra il primo e il secondo attacco aereo affinché avessimo il tempo di piazzare le telecamere e vedere la morte in diretta mondiale. Contemporaneo, documentaristico, digitale, accumulatore psichedelico di lampi di catastrofe, “Cloverfield” è un sovraccarico ideologico dell’invasore di Manhattan, il terrorista apocalittico, l’alieno inaffrontabile nei confronti del quale abbiamo solo una possibilità: filmare, e vedere impassibili la distruzione della nostra storia.



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