Il nastro bianco (Michael Haneke, 2009)

gippu
00venerdì 1 gennaio 2010 20:08
E' arrivato il momento di ripartire con le rec.aut. Iniziamo dalla Palma d'Oro 2009.





Alla vigilia della prima guerra mondiale, in un villaggio della Germania del Nord si succedono misteriosi incidenti: un dottore si ferisce al braccio dopo una caduta da cavallo provocata da una fune, il figlio del barone viene seviziato di notte, il figlio ritardato della levatrice viene trovato in fin di vita in un bosco.
Palma d’Oro 2009, benchè non sia il miglior film di Michael Haneke. Uno degli snodi più complessi e delicati del ventesimo secolo (la Grande Guerra e il successivo caos post-bellico che in Germania portò alla rovinosa ascesa del nazismo) viene affrontato nella chiave del più hanekiano e incurabile pessimismo: l’uomo nasce malvagio e perpetra il male sin dall’infanzia; esso è del resto il periodo della vita in cui esso è paradossalmente più giustificabile, in quanto irrazionale. Se i riferimenti storici non convincono del tutto (i bambini degli anni ‘10 saranno vent’anni dopo gli aguzzini, o anche solamente i complici omertosamente silenti? Haneke ci permetta di dubitare di questa semplificazione che non è da lui), vanno come sempre a segno la ricostruzione d’epoca e la messa in scena di un’atmosfera opprimente, formale e formalmente raffigurata con il consueto algore figurativo, qui esaltato dal bianco-nero che lo ammanta di quell’autorevolezza professorale il cui odio/amore è il vero spartiacque tra gli estimatori del regista e i suoi più accesi detrattori. La società è sempre stata corrotta, e fin dalle radici; la banalità del male, e l’assenza di valide giustificazioni, è alla base di ogni cambiamento sociale e culturale della storia dell’uomo. E’ una visione del mondo ambiziosa e disperata, a cui Haneke si accosta con l’occhio clinico e disilluso del vecchio anacoreta che si pasce del proprio isolamento; sarà anche snob il suo ergersi sempre e comunque su un piedistallo, ma gli va riconosciuta ancora una volta la lucidità spietata con cui seziona – al giorno d’oggi come nel 1914 – le società indipendentemente dal ceto. E nel finale, come sempre aperto, c’è persino spazio per un urlo pasoliniano: che tortura, sapere ma non avere le prove. La didascalia quasi illeggibile che campeggia sotto il titolo, sia nella locandina che nei titoli di testa, recita “Eine deutsche Kindergeschichte”, un racconto di bambini tedeschi.

Voto: 7
vera zasulic
00domenica 10 gennaio 2010 14:35
Re:
Visto ieri sera,condivido gran parte di ciò che ha scritto gippu.
Aggiungo che del film ho apprezzato le inquadrature,la profondità dell'espressione dei volti esaltata dal bianco e nero e l'attenzione con cui il regista ha ricostruito soprattutto gli ambienti interni(sembrano foto d'epoca).
Mi chiedo che gusto ci provino i traduttori italiani a cambiare i titoli originali(come per "le vite degli altri"),ne stravolgono completamente il senso..... [SM=g27820]
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