comportamento inattivo e avveramento della condizione

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Commissario Maigret
00martedì 30 settembre 2003 09:53
CASSAZIONE CIVILE - Sentenza 8363 del 26 maggio 2003
(Contratti in genere - requisiti (elementi del contratto) – requisiti accidentali - condizione - avveramento - mancanza per causa imputabile al controinteressato - dolo o colpa di quest'ultimo - necessità - comportamento inattivo - insufficienza - limiti - fattispecie.)

Nell'ipotesi di negozio condizionato, per l'operatività dell'art. 1359 cod. civ., in virtù del quale la condizione si considera avverata qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario al suo avveramento, è necessaria la sussistenza di una condotta dolosa o colposa di detta parte, non riscontrabile nel caso di mero comportamento inattivo, salvo che questo non costituisca violazione di un obbligo di agire imposto dal contratto o dalla legge (Nella specie, un lavoratore subordinato aveva transatto con il datore di lavoro il giudizio di impugnazione del licenziamento disciplinare e le parti avevano previsto che il primo avrebbe accettato la risoluzione del rapporto, qualora fosse stato condannato con sentenza definitiva per il reato addotto dal datore di lavoro a giustificazione del licenziamento; definito il processo penale con sentenza di proscioglimento per amnistia, il datore di lavoro aveva licenziato il lavoratore; la S.C., sulla scorta del succitato principio di diritto, ha affermato l'inapplicabilità dell'art. 1359, cod. civ., cassando la sentenza di merito che aveva invece rigettato l'impugnazione del licenziamento, sul rilievo che la mancata rinuncia all'amnistia da parte del lavoratore, impedendo l'accertamento dei fatti, costituiva una condotta tale da far ritenere avverata la condizione).

cicolex
00martedì 30 settembre 2003 14:23
Colgo l'occasione per formulare una richiesta ai nostri illuminati partecipanti del forum.
Non ho mai capito la ratio dell'istituto dell'amnistia (ammesso che ci sia....)
L'amnistia provoca uno svilimento dell'autorità dello stato, una diminuzione della forza intimidatrice della legge penale, la vanificazione degli sforzi della polizia e della magistratura, oltre un aumento del numero di delinquenti liberi ed un artificioso prolungamento dei processi penali in attesa del (prevedibile) arrivo del provvedimento clemenziale.
[SM=g27812]
cicolex
00martedì 30 settembre 2003 14:29
Medesime considerazioni per l'istituto dell'indulto.....
Antosenior
00martedì 30 settembre 2003 14:58
Sullo stesso argomento toccato da Cico si veda G. Zampagni al link http://www.giuffre.it/servlet/page?_pageid=222&_dad=portal30&_schema=PORTAL30

[Modificato da Antosenior 30/09/2003 15.04]

cicolex
00martedì 30 settembre 2003 15:15
Re:
http://www.giuffre.it/servlet/page?_pageid=222&_dad=portal30&_schema=PORTAL30



Ciao antò, non funziona....[SM=g27831]

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cico
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omnes viri boni ius ipsum amant

[Modificato da cicolex 30/09/2003 15.17]

Commissario Maigret
00martedì 30 settembre 2003 15:42
E sull'amnistia anche http://w3.uniroma1.it/cattedra_accettella/notiziario_10.htm

In teoria dovrebbe essere un provvedimento eccezionale, dettato da particolari condizioni politiche, poi se ne è abusato...

Un po' come del condono edilizio o fiscale...[SM=g27818]


Antosenior
00martedì 30 settembre 2003 16:29
A me funziona! Comunque....


INDULTO, INDULTINO, AMNISTIA:
UNA SCELTA DI POLITICA CRIMINALE

Una premessa sul contesto
La ormai cronica condizione di crisi del sistema-giustizia del nostro Paese ha imposto all'attenzione degli operatori del diritto e del Legislatore, la questione dell'opportunità di un provvedimento di clemenza che potesse contribuire a riportare a razionalità un comparto del nostro ordinamento che rischia, seriamente, il collasso. Il sistema giudiziario italiano, infatti, è, oggi, pesantemente condizionato da un duplice, grave, sovraffollamento: quello carcerario e, non meno importante, quello giudiziario. Da un lato, la soglia di sopportabilità degli istituti penitenziari italiani è stata abbondantemente superata (si parla della presenza di circa 56 mila detenuti, a fronte di una capacità ricettiva di circa 45 mila, con un tasso d'affollamento del 139% che ci colloca, insieme alla Grecia ed ad alcuni Paesi dell'Est, tra i peggiori d'Europa) e, dall'altro, le previsioni per il futuro non indicano affatto un'inversione di tendenza, a causa del numero elevatissimo di procedimenti penali pendenti. Il pesante carico giudiziario, come si comprende, non potrà che condizionare, negativamente, quello carcerario, con il conseguente peggioramento di una situazione complessiva, già di per sé precaria. Ciò non poteva che determinare una condizione di sovraffollamento, talvolta insopportabile, nelle carceri italiane, sfociata, in alcune occasioni, in gesti clamorosi ed autolesionistici da parte dei detenuti.

Lo stesso Pontefice, in occasione dei recenti incontri istituzionali, è tornato a chiedere un provvedimento di clemenza, in nome del necessario avvicinamento tra detenuti e società, senza trascurare, ovviamente, il bisogno di sicurezza dei cittadini. Non può essere sottaciuto, infatti, che il nostro Paese si trova a vivere la continua e dolorosa contraddizione di una situazione carceraria esplosiva, da una parte, e di una criminalità diffusa (a volte denominata, a torto, "microcriminalità") spesso fuori controllo e nei confronti della quale lo strumento sanzionatorio penale spesso non riesce a produrre il necessario effetto retributivo e deterrente.

Amnistia, indulto...
Sulla base di queste premesse si è sviluppato, da circa tre anni, un dibattito, che ha interessato trasversalmente le forze politiche, sull'opportunità di dar luogo ad un provvedimento di clemenza generale che potesse, se non proprio risolvere tutti i problemi, almeno tamponare le attuali degenerazioni del sistema. Sul piano teorico va rilevato che gli istituti impiegabili, da parte di chi voglia dar luogo ad un provvedimento di clemenza generale, sono riconducibili a due fondamentali categorie: da una parte l'amnistia e, dall'altra, l'indulto. La grazia, infatti, ancorché espressione di un atto di clemenza, esula dal nostro campo d'indagine, perché si distanzia, per sua natura, da una logica d'universalità, tipica dei provvedimenti di clemenza generale, producendo i propri effetti benefici soltanto ad personam. Il legislatore italiano, dunque, perseguendo la propria finalità di clemenza, avrebbe dovuto percorrere, alternativamente, due strade maestre: dare luogo all'estinzione di taluni reati, mediante lo strumento dell'amnistia, oppure servirsi dell'indulto al fine di cancellare parte delle pene già inflitte.

Entrambi gli strumenti "istituzionalmente" a disposizione, tuttavia, apparivano di difficile attuazione pratica nel contesto politico del nostro Paese: l'articolo 79 della Costituzione, nel testo modificato per effetto della Legge Costituzionale n. 1 del 1992, prevede che sia l'amnistia che l'indulto debbano essere approvati, in entrambe le Camere, da una maggioranza qualificata dei due terzi dei loro componenti. La difficoltà di raggiungere la maggioranza richiesta nelle aule parlamentari, a favore di un provvedimento di clemenza, peraltro, appariva evidente a causa del dichiarato dissenso da parte d'alcune, consistenti, forze politiche, le quali si ripromettevano di impedire o, comunque, gravemente ostacolare, il buon esito del procedimento aggravato previsto dall'articolo 79 della Costituzione.

Va precisato che la riforma costituzionale dell'articolo 79, volta ad "aggravare" il procedimento di concessione degli istituti di clemenza, fu elaborata agli albori della stagione di "Tangentopoli" e fu certamente condizionata dal pressante "bisogno di legalità" che emergeva nell'Italia di quel periodo. In quel contesto s'intendeva porre un freno al troppo frequente e facile ricorso a tali strumenti che venivano interpretati come intollerabili "rese" al sistema, diffuso, dell'illegalità. Con tale riforma, dunque, s'intendeva porre l'accento sulla natura realmente eccezionale degli istituti di clemenza, i quali si sarebbero potuti concedere solo all'esito di un vasto accordo parlamentare, capace di superare la ordinaria confliggenza maggioranza-opposizione e di sintetizzare, in una voce sola, la quasi totalità delle forze politiche. E' opportuno riconoscere che nei mesi scorsi più di una voce si è levata per contestare il senso di quella riforma, intendendo proporre un ritorno al vecchio sistema della maggioranza semplice, ma ciò potrà rilevare soltanto de iure condendo. Per il momento, ogni seria analisi non può prescindere dal contenuto e dai limiti procedurali previsti dall'articolo 79 ed ancora vigenti per la concessione degli istituti di clemenza.

...e indultino.
Di fronte ad una apparente logica binaria, dunque, i fautori della necessità di un provvedimento di clemenza hanno preferito optare per un tertium genus denominato, giornalisticamente, indultino: si tratta di un progetto di legge, proposto dai Deputati Pisapia e Buemi, finalizzato a sospendere gli ultimi tre anni della pena a favore di chi non abbia commesso reati gravissimi ed abbia, comunque, scontato almeno un quarto della condanna. L'istituto in esame, per com'è stato proposto, non coincide, almeno formalmente, con l'indulto "ordinario", differenziandosene in alcuni tratti caratterizzanti e necessitando, per la sua approvazione, del ben più "semplice" iter procedimentale previsto per la legge ordinaria. Non si tratta di un indulto vero e proprio perché il beneficio non viene concesso, sic et simpliciter a tutti, ma è subordinato alla sussistenza ed alla persistenza di una serie di condizioni in capo ai condannati e, particolare non secondario, viene concesso dal Tribunale di Sorveglianza. Più precisamente, ciò vale per i soggetti che già abbiano riportato una sentenza di condanna, mentre in relazione ai procedimenti penali pendenti, non ancora conclusisi con una sentenza, compete al Pubblico Ministero chiedere l'applicazione della misura clemenziale.

Lo stesso organo che emette il provvedimento, peraltro, secondo il tenore del progetto, può in ogni momento revocare la concessione del beneficio in caso di violazione, da parte del condannato, di alcuni obblighi a lui imposti e che vengono individuati, nella loro elencazione, dalla disciplina già vigente in materia d'affidamento in prova ai servizi sociali. Il beneficio, inoltre, viene meno ipso iure anche in caso di ulteriore condanna a pena detentiva non inferiore a sei mesi di reclusione per delitto non colposo, riportata dal beneficiario.

I dubbi sulla legittimità costituzionale dell'indultino
A fronte dell'approvazione, da parte della Camera dei Deputati, del progetto di legge sull'indultino, molte voci si sono levate, nell'ambito della dottrina italiana, con l'intento di evidenziarne i possibili profili di illegittimità costituzionale. In particolare si è sostenuto da più parti che l'istituto in esame, al di là del nomen iuris impiegato, non rappresenti altro che un indulto "mascherato" e che, conseguentemente, in caso di sua approvazione, verrebbe aggirato il disposto costituzionale dell'articolo 79 che, come sappiamo, richiede la maggioranza qualificata dei due terzi dei componenti. Non si può - sembrano sostenere i fautori di questa tesi - eludere il procedimento aggravato previsto in Costituzione, semplicemente modificando la denominazione di un istituto che, se proprio non coincide con l'indulto, comunque se ne avvicina molto.

Un altro profilo di possibile illegittimità costituzionale viene individuato rispetto alla vigente disciplina dell'affidamento in prova ai servizi sociali: tale istituto, infatti, che richiede, tra l'altro, un positivo giudizio prognostico sulle possibilità di recupero del condannato, sembra dare luogo ad una disciplina ben più onerosa e complessa rispetto a quella dell'indultino, con conseguente, possibile lesione dell'articolo 3 della Costituzione, in danno dei condannati che abbiano optato per la messa in prova. Questi ultimi, infatti, verrebbero ingiustamente discriminati perché sottoposti ad un procedimento del tutto privo di automatismi favorevoli al reo e ben più caratterizzato dai poteri discrezionali del giudice, rispetto a quello dell'indultino.

Un ulteriore dubbio di legittimità costituzionale viene anche individuato nel conflitto logico tra la ratio ispiratrice della misura di clemenza ed il disposto dall'articolo 27 della Costituzione. In questo quadro si sostiene che se, come pare, uno dei fini dell'indultino sia quello di accelerare un corretto reinserimento sociale del condannato, non si comprende perché vengano sospese, per effetto di questo, le sole pene principali e non anche quelle accessorie. Si comprende bene, infatti, che le pene accessorie e, in particolare, quelle interdittive, incidono pesantemente sulla capacità lavorativa del condannato fuori del carcere, quindi sul suo reinserimento sociale.

Considerazioni critiche
Al di là dei dubbi di legittimità costituzionale appena esposti e dell'interrogativo se le forze politiche favorevoli ad un provvedimento di clemenza abbiano opportunamente o meno "coniato" il nuovo istituto dell'indultino, al fine di superare le probabili difficoltà che avrebbero incontrato in sede di procedimento aggravato ai sensi dell'articolo 79 della Costituzione, si rendono necessarie alcune valutazioni di politica criminale, fondate su elementi empirici tratti dalla storia recente del nostro Paese: questa ha efficacemente dimostrato che i provvedimenti di clemenza, in sé considerati e al di fuori di una effettiva riforma del sistema penale, producono effetti benefici non rilevanti e, soprattutto, transitori. E' sufficiente ricordare, in questa prospettiva, che nell'ordinamento repubblicano sono stati emanati una dozzina di provvedimenti di clemenza i quali, tuttavia, non hanno impedito, né rallentato, l'emersione di una crisi degenerativa del sistema. L'effetto di "svuotamento" delle carceri, infatti, è destinato a durare per un breve-medio periodo (circa due anni), al termine del quale la situazione è destinata a ripresentarsi nella sua gravità.

Appare chiaro, in tale quadro, a prescindere dalle condivisibili ragioni di opportunità che inducono a dire sì, nel nostro tempo e nella nostra condizione, ad un provvedimento di clemenza, che una tale scelta dovrebbe necessariamente innestarsi in un ben più complesso progetto di riforma dell'ordinamento penale del nostro Paese e dell'intero sistema di reinserimento sociale dei detenuti. Solo in questo contesto, infatti, troverebbe piena giustificazione, etica e sistematica insieme, lo stesso atto di clemenza e verrebbe efficacemente confutata la tesi dei molti che individuano in ciò il rischio di un indebolimento pericoloso del senso di legalità e di certezza della pena. Deve essere precisato, infatti, che i provvedimenti di clemenza non possono costituire, come alcuni appaiono ritenere, veri e propri diritti soggettivi dei detenuti, per giunta azionabili e prevedibili con una certa ciclicità temporale, bensì rappresentano un rimedio, talvolta necessario, a fronte di gravi disfunzioni del sistema. In certe circostanze, infatti, come probabilmente quella che si trova a vivere in nostro Paese, può essere preferibile "svuotare" le carceri, piuttosto che vederle "scoppiare", ma ciò non significa che l'indulto, l'amnistia o l'indultino debbano ergersi ad ordinarie valvole di sfogo del nostro sistema penale. Ritenere il contrario, peraltro, significherebbe svuotare di contenuto il disposto dall'articolo 27 della Costituzione che, nel prevedere la funzione rieducativa della pena, postula necessariamente che questa venga scontata, nel rispetto, ovviamente, del principio di legalità e di umanità.

Il nostro Legislatore, dunque, se non proprio contestualmente al provvedimento di clemenza (sempre, beninteso, che questo venga definitivamente approvato), almeno immediatamente dopo, dovrà sobbarcarsi l'onere di riformare le linee-guida del nostro sistema repressivo. In questo quadro non può sottacersi il fatto che, oggi, la macchina giudiziaria del nostro Paese, a fronte della esistenza di oltre quattromila fattispecie di reato, "funziona" soltanto per una decina di questi, tra i quali quelli legati agli stupefacenti, alla tutela del patrimonio, le associazioni per delinquere e gli omicidi. Per il resto, il sistema appare girare "a vuoto", con la conseguente mancanza di tutela delle persone offese che cercano giustizia, e la scarsa o nulla afflittività degli strumenti sanzionatori astrattamente previsti. Appare necessario, allora, "ripensare" il diritto penale del nostro Paese, sia quello sostanziale, che quello processuale, dando luogo, ad esempio, ad una importante opera di depenalizzazione che riguardi i cosiddetti reati bagatellari e che consenta di concentrare l'attenzione sui fatti dotati di una effettiva carica di offensività sociale. In questa ottica sarebbe necessario anche introdurre forme di sanzione alternative alla repressione penale, idonee a produrre ugualmente un efficace effetto retributivo a carico del colpevole ed una tutela concreta a favore dell'offeso.

Diversamente, nel caso in cui il Legislatore di oggi si limiti a scegliere la "scorciatoia" del semplice indultino, non potrà certo dirsi risolto, neppure transitoriamente, il problema che ha dato adito alla apertura del dibattito. Come, infatti, afferma Gustavo Zagrebelsky in un attempato ma ancora interessante studio in materia, gli istituti di clemenza "possono talora costituire soltanto il momento transitorio che precede la modifica della legislazione penale". D'altra parte, il principio per cui i provvedimenti di clemenza in tanto funzionano, in quanto vengano accompagnati da serie riforme del sistema, è ben ben rappresentato dal Bentham che, già nel lontano 1829, intimava ai Legislatori del tempo: "Fate delle buone leggi e non create una bacchetta magica che le possa annullare! Se la pena è necessaria non la si deve rimettere, se non è necessaria, non la si deve pronunciare".



Bibliografia::

G. Zagrebelsky, "AMNISTIA, INDULTO E GRAZIA. Profili costituzionali", Giuffrè, 1974.
G. Pansini, "Sull'indulto rilevanti dubbi di legittimità costituzionale", in "Diritto e Giustizia", Giuffrè n. 6 del 15.02.2003, pagg. 8 e ss.





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