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Gesù storico

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    Regin
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    00 07/03/2006 22:40



    GESU' STORICO



    GESU' STORICO


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    Ratzigirl
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    00 08/03/2006 01:25
    Ohhhhhhhhhhhhh
    Interessante sito che mi propongo di consultare per intero e poi commentare!! Ho visto che ci sono diverse cose da approfondire, come ad esempio i riferimeni archeologici molto interessanti che combacerebbero con quanto riportato dai Vangeli canonici! Grazie Regin per questa bella iniziativa!!! [SM=g27823] [SM=g27823] [SM=g27823] [SM=g27823]
  • Discipula
    00 12/01/2007 14:47
    Tavola cronologica circa la nascita di Gesù di Nazareth
    Città del Vaticano (Agenzia Fides) -

    La Tavola è il risultato della comparazione di otto calendari in uso nell'area mediterranea, dalla Grecia a Roma, alla Siria-Palestina, nel periodo compreso tra il 70 a.C. e il 50 d.C. In essa, infatti, sono riportati sia i calendari delle Olimpiadi, della Fondazione di Roma (a.U.c.), degli Imperatori e dei Consoli romani, dei Sommi Sacerdoti e della Restaurazione del Tempio di Gerusalemme, sia le notizie storiche desunte dai Vangeli e da Antichità Giudaiche e Guerra Giudaica di Giuseppe Flavio.

    Si possono leggere nella Tavola due ipotesi circa la nascita di Gesù di Nazareth.
    La prima, sostenuta dall'Ottocento in avanti, pone la nascita di Gesù al 7 a.C., in base ad un calcolo previo che contempla la morte di Erode il Grande nel 4 a.C., nonché della congiunzione, proprio in quell'anno, dei pianeti Giove e Saturno, fenomeno astronomico ritenuto all'origine della stella vista dai Magi.
    La seconda, invece, già indicata dal monaco Dionigi il Piccolo nel VI secolo, e tornata in auge da una decina danni, in particolare per gli studi di Giorgio Fedalto, grazie all'uso dei risultati dell'U.S. Naval Observatory di Washington, che pone la nascita di Gesù nel 1° anno della cosiddetta Era volgare.
    È utile sottolineare che per i sostenitori della prima ipotesi Gesù vive dal 7 a.C. al 30 d.C., quindi per 37 anni; per la seconda, dal 1 d.C. al 33 d.C., per 33 anni. La seconda ipotesi è praticamente ormai scientificamente incontestabile.
    Come sostenere, però, la nascita di Gesù nel primo anno dell'era cristiana se Erode muore nel 4 a.C.?
    Secondo lo stesso Giuseppe Flavio, Erode compiva 15 anni quando Ircano era giunto al nono anno dalla sua nomina, da quando Pompeo l?aveva ordinato Sommo sacerdote a Gerusalemme. Sappiamo che Erode morì a 71 anni circa, quindi nel 2 o 3 d.C. - esattamente 55 anni dopo il 54 a.C. - e non quindi nel 4 a.C., come comunemente ancora si sente ripetere. Tra l'altro l'eclissi a cui fa riferimento Giuseppe Flavio, come evento legato alla morte di Erode, si è verificata sia nel 4 a.C. che nel 3 d.C. Va a questo punto osservato, ai fini dei calcoli, che l'anno zero è stato introdotto molti secoli dopo lo stesso calendario preparato dal monaco scita Dionigi, fino ad allora computando, senza soluzione di continuità, dall'1 a.C. al 1 d.C.
    In più, va aggiunto, che le reggenze dei figli di Erode eccedono di tre anni le rispettive date di abdicazione o di morte: Archelao è cacciato dalla Giudea nel 7 d.C. dopo 10 anni di reggenza; Filippo muore nel 34 d.C. dopo 37 anni di reggenza e Antipa muore nel 40 d.C. dopo 43 anni di regno. Fatto che induce a sostenere un periodo di almeno tre anni di co-reggenza del padre con i figli. In tal modo bisogna posticipare al 2 o 3 d.C. la data di morte di Erode, perché quella del 4 a.C. è in realtà la data del testamento con cui suddivide il regno tra i tre figli.
    Alla luce di quanto abbiamo detto, si può ritenere fondatamente che Gesù nacque nel 1 d.C. e che Erode morì tra il 2 e il 3 d.C., confermando la tradizione delle Chiese orientali registrata dai calendari giuliani e gregoriano. Sul giorno del 25 dicembre si rimanda a quanto già pubblicato (vedi Fides, Le parole della dottrina: 28/12/2006 e 4/1/2007). Qui si torna a ricordare che la festa cristiana del Natale non ha la sua origine storica in Roma ma in Terra Santa: nella seconda metà del IV secolo Egeria racconta che a Gerusalemme si celebrava il 6 gennaio. Si può supporre che tale data, oggi l'Epifania - attestata per quanto si sa in Alessandria nell'ambiente gnostico di Basilide - sia rimasta festa del Natale nei calendari bizantini fino al 1583, data della riforma gregoriana, in seguito alla quale il calendario giuliano è in ritardo di 13 giorni rispetto al gregoriano.
    Con ciò non si vuol dire che tutto sia chiarito, però le vecchie ipotesi, secondo cui il 25 dicembre era stato scelto a Roma in polemica con il culto mitraico o anche come risposta cristiana al culto del sole invitto, che era stato promosso dagli imperatori romani nel corso del terzo secolo come tentativo di stabilire una nuova religione di stato, oggi non paiono più sostenibili. (J.Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, Ed. San Paolo, Cinisello B. 2001, p 104).

    Links:

    Tavola cronologica dal 70 a.C. al 50 d.C. di 8 calendari comparati (formato pdf)

    www.fides.org/ita/approfondire/2007/cronologia_A4.pdf



  • ratzi.lella
    00 24/01/2007 17:45
    IL VOLUME DEL PAPA

    «Il Cristo storico è quello della fede»
    di G.Ber.

    È attesa per aprile e si intitolerà «Gesù di Nazareth. Dal Battesimo nel Giordano alla Trasfigurazione» la prima parte del libro che Benedetto XVI ha scritto sull'identità di Gesù. Un'opera che si propone di rispondere allo strappo tra il «Gesù storico» e il «Cristo della fede», provocato da alcuni modi di applicare il metodo storico-critico alla lettura dei Vangeli. A partire dagli anni Cinquanta - spiega Ratzinger nella prefazione del volume, (alcuni brani sono stati anticipati lo scorso 21 novembre) - distinzioni sempre più sottili hanno portato a delineare fisionomie di Gesù ben diverse da quelle tracciate dagli evangelisti. Fisionomie spesso tra loro anche in contraddizione. «Tutti questi tentativi - annota Ratzinger - hanno lasciato dietro di sé l'impressione che noi sappiamo ben poco di certo su Gesù e che solo più tardi la fede nella sua divinità ha plasmato la sua immagine. Questa impressione è penetrata profondamente nella coscienza comune della cristianità. Una simile situazione è drammatica per la fede perché rende incerto il suo autentico punto di riferimento: l'intima amicizia con Gesù, da cui tutto dipende, minaccia di annaspare nel vuoto». Ecco allora il libro, che si propone di tornare a far incontrare il «Gesù storico» col «Cristo della fede». «Io ho fiducia nei Vangeli - continua il Papa-teologo -. Naturalmente do per scontato quanto il Concilio e la moderna esegesi dicono sui generi letterari, sull'intenzionalità delle affermazioni, sul contesto comunitario dei Vangeli e il loro parlare in questo contesto vivo. Pur accettando, per quanto mi era possibile, tutto questo ho voluto fare il tentativo di presentare il Gesù dei Vangeli come il vero Gesù, come il "Gesù storico" nel vero senso della espressione. Io sono convinto che questa figura è molto più logica e dal punto di vista storico anche più comprensibile delle ricostruzioni con le quali ci siamo dovuti confrontare negli ultimi decenni». Nella prefazione Ratzinger precisa, infine, il carattere del testo, cui aveva iniziato a lavorare già nel 2003. «Questo libro - spiega - non è assolutamente un atto magisteriale, ma è unicamente espressione della mia ricerca personale del "volto del Signore" (Salmo 27,8). Perciò ognuno è libero di contraddirmi. Chiedo solo alle lettrici e ai lettori quell'anticipo di simpatia senza la quale non c'è alcuna comprensione».



    «Oltre le mode ritroviamo il Gesù di cui parlano i Vangeli»
    Il cardinale Antonelli riprende la riflessione dei vescovi italiani sul libro di Ratzinger: «Verifichiamoci anche su come parliamo di Lui ai nostri ragazzi»
    Da Roma Mimmo Muolo

    Il Gesù storico e il Cristo della fede «non sono due figure diverse, ma la stessa persona». L'affermazione che sta al centro del prossimo libro del Papa su Gesù di Nazareth, e alla quale il cardinale Camillo Ruini aveva dedicato lunedì un passaggio della sua prolusione, è stata oggetto di numerosi interventi, all'interno del Consiglio permanente, durante il dibattito seguito al discorso introduttivo del presidente della Cei. Segno di un evidente interesse, teologico e pastorale insieme, che il cardinale Ennio Antonelli sintetizza così: «Dopo Verona si può essere testimoni della speranza solo se siamo pienamente consapevoli che stiamo camminando con Cristo crocifisso e risorto, il quale è vivo e presente nella sua Chiesa. E che questo Cristo è lo stesso dei Vangeli». All'arcivescovo di Firenze, autore di un intervento nel corso del dibattito, chiediamo dunque di approfondire l'importante tematica.

    Eminenza, perché si torna a parlare così tanto del Gesù storico?

    «In realtà sono ormai quasi 200 anni che il Nuovo Testamento viene sottoposto a un esame storico-critico, che spesso, però, manipola i testi, per costruire un'immagine di Cristo secondo certe ideologie. Oggi in particolare si cerca di postdatare al massimo i Vangeli canonici e gli altri scritti neotestamentari e nello stesso tempo di anticipare la data dei Vangeli apocrifi (tra gli uni e gli altri corre almeno un secolo), proprio per mettere tutto sullo stesso piano e per poter avere degli appigli su cui costruire un'immagine di Gesù secondo le mode del nostro tempo. È un'operazione non solo "culturale", ma anche commerciale, visto che gli scritti e gli spettacoli di argomento religioso tirano molto».

    Che cosa si può fare per contrastare questa tendenza?

    «La decisione del Papa di scrivere un libro su Gesù di Nazareth è una chiara indicazione di come ci si deve muovere. Non dimentichiamo che già in molte occasioni Benedetto XVI ha invitato ad allargare gli spazi della ragione. Uno dei campi in cui operare questo allargamento è quello della ricerca storica su Gesù. Occorre innanzitutto ribadire che il Gesù storico e il Cristo della fede non sono due figure diverse, ma la stessa persona. Il Cristo della fede implica il Gesù storico, perché quella cristiana è la fede nel Dio che è venuto nella storia. Dunque il Papa si interessa al Gesù storico nella prospettiva del rapporto tra fede e ragione».

    Quali riflessi pastorali può avere questo rinnovato interesse sulla figura di Gesù?

    «Credo che il libro del Papa si riferirà innanzitutto ai teologi e agli studiosi, invitandoli a un discernimento teologico sulla vita di Gesù, pur senza perdere di vista la serietà del metodo storico. Ma più in generale questa pubblicazione richiamerà tutti i cristiani ad approfondire gli aspetti di ragionevolezza della nostra fede».

    Ad esempio?

    «Fin dall'inizio la conoscenza storica e la fede cristiana hanno camminato di pari passo. La prima Lettera di Giovanni inizia dicendo: "Quello che abbiamo visto con i nostri occhi, quello che abbiamo udito con le nostre orecchie, quello che abbiamo toccato con le nostre mani, questo noi vi annunciamo". Del resto Gesù stesso, nel Vangelo, chiede agli apostoli e ai discepoli di usare l'intelligenza, rimproverandoli quando non lo fanno. Dunque tutto il Nuovo Testamento, pur essendo un documento della fede in cui la storia di Gesù è riletta alla luce dell'esperienza pasquale, si basa su quanto Gesù ha veramente detto e fatto. Perciò, oggi, anche noi siamo chiamati a recuperare questa dimensione storica fondamentale. E non solo nella teologia, ma anche nella catechesi. Ho l'impressione che, invece, sovente diamo ai ragazzi e ai fedeli un'immagine soprattutto moralistica della fede, senza trasmettere loro l'idea che il cristianesimo è storia: è la storia della salvezza in atto. E Gesù cammina in mezzo a noi e ci invita a seguirlo».

    Una storia che continua nel presente, dunque.

    «Certo. Quando dico storia, non intendo solo la storia di Gesù fino alla sua morte. Egli è risorto, è vivente e Paolo dice che è Gesù stesso che evangelizza i popoli. Certamente lo fa per mezzo della Chiesa, ma Lui è il primo evangelizzatore. Questa consapevolezza della presenza di Gesù nella storia della Chiesa dobbiamo ricuperarla a tutti i livelli. A livello di catechesi, di esperienza di fede e di studi teologici. Anche perché ci sono i segni concreti».

    Quali?

    «Il Concilio Vaticano I dice che la Chiesa stessa è un grande segno di credibilità. E il Vaticano II insegna che i santi, ad esempio, sono un segno che Cristo sta mantenendo le sue promesse. Così anche i miracoli, che egli stesso aveva preannunciato (basti pensare ai miracoli riconosciuti per le beatificazioni e le canonizzazioni). Del resto sarebbe difficile per noi credere a un uomo vissuto 2000 anni fa. Uno, se deve mettere in gioco la propria vita, lo fa per un Salvatore vivente, che dà segni di essere vivo. E questo Salvatore è lo stesso Gesù storico dei Vangeli».

    (da "avvenire" del 24 gennaio 2007)
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    emma3
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    00 29/01/2007 15:17

    RELIGIOSITÀ. Esce da Einaudi un imponente volume dedicato al testo cristiano per eccellenza. E molti altri indicano una tendenza

    Vangeli superstar. Il Nuovo Testamento come genere letterario: e il grande pubblico riscopre il Gesù storico


    di alberto melloni

    I bambini milanesi cresimati da Pierangelo Sequeri e i lettori delle sue omelie (ora raccolte nel volumetto L' ombra di Pietro) avranno una tentazione. Se compreranno l' enorme volume de I Vangeli (Einaudi, i Millenni) forse non lo stiveranno a prender polvere su una libreria, ma lo metteranno in dispensa, là dove sta il pane che tiene vivo chi è vivo. E per il grande tomo curato da Giancarlo Gaeta non sarebbe una cattiva collocazione: ma un modo semplice per dire come un animo credente potrebbe guardare a questa nuova traduzione, corredata dall' edizione critica dell' originale greco a fronte e ordinata non nella serie canonica degli evangeliari, ma in sequenza storica: aperta perciò dal Vangelo di Marco, seguito da quelli di Matteo, Luca (senza gli Atti degli Apostoli), Giovanni e chiusa dal masso erratico del racconto del perdono di Gesù all' adultera - che antichi manoscritti e moderni esegeti espungono dal Vangelo per ragioni codicologiche, letterarie, filologiche, ma che resta, anche in questa curata edizione, come pietra di paragone per il destinatario naturale del Vangelo. Perché il Vangelo - proprio come genere letterario specifico ed originale - si rivolge ad un ascoltatore preciso e potenzialmente depista tutti gli altri: inganna quelli che pensano di poterlo usare per dimostrare qualcosa, com' era accaduto tempo fa quando un frammento di papiro era stato esaltato come la prova che avrebbe dovuto costringere alla resa gli scettici; inganna quelli che pensano che esso sia una sorta di feticcio sacrale, da proteggere dagli studiosi che, ormai da due secoli, si affannano attorno a minutissime varianti, a strutture interne, a caratteri narrativi che possono invece farli capire meglio; e inganna anche quel positivismo critico, ispessito dal gusto abrasivo di Corrado Augias, che ha fatto lo scandalo e dunque il successo dell' intervista a Mauro Pesce, giunta nelle classifiche delle vendite a vette alte, ma che alla fine lascia insoddisfatti proprio su quel piano propriamente scientifico che raramente può diventare merce di discussione generica. Ciò che infatti interessa il destinatario naturale d' ogni Vangelo - tutti quelli circolati nelle chiese dei primi due secoli e non di meno quelli che con una decisione venuta dalla prassi diventano i 4 Vangeli canonici - non sono infatti i detriti e le schegge che lo «scultore» del Vangelo ha lasciato sul terreno: ma ciò che egli ha scolpito, che è Gesù. E mentre l' inchiesta di Augias, di cui Pesce è teste, s' immerge in tutto il «non detto» di Gesù dai Vangeli (il suo rapporto con l' ebraismo, con i malati che guarisce, con la pretesa messianica, con l' attesa del Regno), gli sfugge che il problema vero - quello storico, teologico e spirituale - è il Gesù che resta, e di cui il Vangelo parla sempre e soltanto a chi voglia entrare in relazione con quel Gesù. Così, pur avendo ottenuto l' immeritata pubblicità della stigmatizzazione ecclesiastica, l' inchiesta così letta dall' Italia di fine anno è terribilmente allineata con una tendenza quanto mai forte nella Chiesa, che vede l' attenzione al Gesù dei Vangeli sempre più bassa sull' orizzonte della predicazione, del magistero, della disciplina. So di forzare, ma non troppo, se dico che al fondo oggi c' è molto Cristianesimo che non ha un gran bisogno di Gesù e in ogni caso non ha un gran bisogno della sua storicità così come ce la consegna la narratività propria dei Vangeli. Un Cristianesimo pago del suo ritrovato potere, dell' ossequio che gli tributa chi lo vede custode necessario di principi «naturali» e galvanizzato da chi su questo terreno lo critica con argomenti stupidini; arroccato sulle proprie forme confessionali e ormai abilissimo nel nascondere il disprezzo radicale per gli altri cristiani sotto forme di diplomatica cortesia. Non so se lo sta scrivendo per questo, ma certo questo è «il» problema con cui si deve misurare papa Ratzinger se non vuole che il suo libro su Gesù si riduca ad una delle operazioni di pontifical bestseller già viste e non sempre edificanti: cioè rispondere al bisogno di ascoltare nel Vangelo Gesù nella pretesa di essere Signore, pretesa che i cristiani hanno riconosciuto coerente con la sua morte in croce e con quel vuoto nella tomba in cui leggono profumo e promessa di resurrezione. C' è infatti un modo di annunciare la salvezza cristiana che la rende irriconoscibile: quello che inizia elencando le miserie morali e le delusioni della vita, e lì s' incaglia, quasi che la salvezza possa parlare solo a una umanità disposta a denegarsi. E c' è un modo di ascoltare la salvezza che, invece, si fissa su Gesù: l' uomo che cammina di cui i discepoli vedono soprattutto le spalle (l' aveva capito Pasolini!) e di cui i poveri vedono il volto che bacia, la mano che consola: è questo il modo dei Vangeli su cui si chinano il credente e lo studioso, il commentatore e il predicatore, il solitario e la comunità. Essi, per opposti motivi, non saranno i frequentatori dei Vangeli di Einaudi: ma questa impresa editoriale è una ottima occasione - a metà strada fra il l' inchiesta di Augias-Pesce e il libro di Ratzinger - per interrogarsi sul Gesù narrato. E nel cercare qualche risposta soccorrono tre suggestioni bibliografiche. La prima è una piccola omissione in cui Gaeta è occorso: nel 1994 François Bovon ed Enrico Norelli curarono per la rivista dell' EDB Cristianesimo nella storia una serie di studi intitolati Dal Kerigma al canone. Lo statuto degli scritti neotestamentari nel secondo secolo. Lavori per superspecialisti, ma molto lucidi nell' indicare il filo del processo di selezione che filtra fra i tanti Vangeli circolanti quelli divenuti «canonici»: non con un setaccio di tipo filosofico, non per una politica dottrinale che manda «in minoranza» per l' eternità le voci aliene; ma in una decantazione prevalentemente liturgica che seleziona ciò senza il quale la Chiesa non è. E questo nucleo irrinunciabile che diventa il canone ha al centro un Gesù che comprende ed eccede le dimensioni dottrinali entro cui la fede cristiana lo confessa Signore e Maestro. Ma, senza quel minimo di lui che si può capire da quel minimo che sono i Vangeli canonici, non resta nulla. Che questo sia vero - è la seconda indicazione di lettura - lo dimostrava anche il lavoro davvero limpido e bello compiuto da Mauro Pesce sulle Parole dimenticate di Gesù apparse nei preziosi tomi della Fondazione Valla nel 2004. Ma già allora, al termine d' una collezione di detti gesuani colti ovunque nella letteratura cristiana fra gli inizi della predicazione e il consolidamento del canone, Pesce aveva concentrato la sua attenzione su quei dettagli che in seguito hanno eccitato la verve polemica del giallista; ma quella serie di parole, nella loro varietà e incomponibile provenienza (scritti gnostici e ortodossi, d' ogni riva mediterranea e di varie ascendenze culturali) ripetevano che nella vita di Gesù tutti coloro che ne hanno scritto hanno cercato non ciò che intriga l' esegeta, ma la bontà del suo fare e il nesso fra quella bontà e il suo morire sul patibolo romano. E in questo Gesù afferma la propria pretesa messianica non come «la» verità genericamente intesa, ma come «la verità crocifissa», come titola Giuseppe Ruggieri di un lucidissimo saggio che sarà ripubblicato nel volume Verità e storia in uscita per Carocci - una riflessione, che se non fosse irriverente supporre che non la conosca, consiglieremmo anche al Papa in vista della stesura del suo libro. Il Vangelo come genere parla proprio a quel destinatario: non a chi è genericamente assetato di verità al punto da impugnarne una qualsiasi; non a chi ha una qualche infatuazione spiritualista per il guru-Gesù; ma per chi sente vibrare, nel concreto della vita di Gesù e nella sua morte, ciò senza cui non potrebbe vivere. Per questo credo che fra i meriti di queste 1200 pagine sia aver tenuto fuori il racconto dell' adultera dall' evangeliario e non aver osato espungerlo: se si perdesse quel racconto spurio i cristiani non potrebbero esistere, perché nessun altro potrebbe dire loro «neppure io ti condanno» e «d' ora innanzi non peccare più». Il sacro in libreria *** «I Vangeli - Marco Matteo Luca Giovanni», a cura di Giancarlo Gaeta, sono editi da Einaudi nella collana «I Millenni» ( 85 ). Tra gli altri titoli citati ricordiamo: Pierangelo Sequeri «L' ombra di Pietro. Legami buoni e altre beatitudini» (edito da Vita e Pensiero). Giuseppe Ruggieri, «Cristianesimo, chiese e Vangelo» (il Mulino) e in uscita: Verità e storia (Carocci)

    (27 gennaio, 2007) Corriere della Sera

  • ratzi.lella
    00 29/01/2007 16:12
    ma che bravo!!!
    melloni supera se stesso ancora una volta e stronca il libro del papa prima ancora di leggerlo [SM=g27812]
    non solo: si permette di dare anche dei piccoli suggerimenti di lettura a benedetto...
    caro melloni, un po' piu' di umilta' sarebbe d'obbligo o forse e' chiedere troppo?
    ah..gia'...per lei, melloni, papa ratzinger perde tempo a suonare il pianoforte mentre, in medio oriente, si scatenano guerre...eh...si'...e' chiedere troppo [SM=x40796] [SM=x40797]
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    Ratzigirl
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    Registrato il: 10/05/2005
    Utente Gold
    00 30/01/2007 23:53
    da Famiglia Cristiana
    QUESTO GESÙ FA DISCUTERE
    di Gianfranco Ravasi

    Sollecitata da molti lettori, disorientati da Inchiesta su Gesù di Corrado Augias e Mauro Pesce, Famiglia Cristiana aveva chiesto a Gianfranco Ravasi di fornire alcune indicazioni sull’attendibilità dei criteri storiografici ed esegetici del libro. Nel servizio "Non solo un uomo" pubblicato su FC 3/2007, il biblista sollevava alcune obiezioni di fondo sul metodo di quel lavoro: per comprendere la figura di Gesù – ricordava – bisogna tenere conto che i dati storicamente verificabili, soprattutto nei Vangeli, sono impastati con la dimensione religiosa. Il professor Pesce ha risposto a Ravasi, al quale abbiamo chiesto a sua volta una replica (entrambe sono riportate qui sotto). Una cosa è certa: la figura di Gesù continua ad appassionare laici e credenti. È facile prevedere che ad aprile, quando uscirà Gesù di Nazareth. Dal battesimo nel Giordano alla Trasfigurazione, scritto nientemeno che da papa Benedetto XVI, il dibattito si riaccenderà. Tanto più che lo stesso Ratzinger ha detto che «questo libro non è assolutamente un atto magisteriale, ma è unicamente espressione della mia ricerca personale del "volto del Signore". Perciò ognuno è libero di contraddirmi».

    Pesce: la mia ricerca nasce da una razionalità aperta al trascendente

    Il grande biblista cattolico Albert Descamps di Lovanio era un teologo tutt’altro che rivoluzionario, però ha combattuto affinché gli esegeti conducessero una ricerca su Gesù a prescindere dal presupposto di fede. Questo ho imparato da maestri come lui, come Jacques Dupont. Non c’è opposizione tra la ricerca storica e la fede, come non ce n’è, dal punto di vista del dogma cristiano, tra la piena umanità di Gesù e la sua divinità.

    Il criterio di storicità che seguo nelle risposte a Corrado Augias nel libro Inchiesta su Gesù è tutt’altro che sbrigativo e grossolano, come erroneamente insinua Ravasi. Nasce da una razionalità aperta al riconoscimento del soprannaturale e per questo affermo la veridicità dei racconti di miracoli e la veridicità dei racconti di risurrezione. Rivendico di avere mostrato come nelle esperienze del Battesimo/Tentazioni e della Trasfigurazione si abbia uno dei nuclei più radicali della persona di Gesù. Ho cercato di additare una strada per riconoscere la sua straordinaria statura: si tratta di capire come e perché la sua dimensione totalmente religiosa, mistica, verticale sia coerente con la sua altrettanto grande concentrazione sulla giustizia, sui bisogni degli uomini e sul sociale.

    È falso che io abbia "amputato" la dimensione trascendente. Non è vero che "riduco al minimo" i fatti verificabili. La contrapposizione "Gesù sì - Chiesa no" mi è estranea. Ma lo storico non può non mostrare le differenze tra Gesù e i suoi discepoli successivi. È anzi la trascendenza di Gesù che garantisce la loro fede. E l’esegesi, nell’additare meglio che può ogni aspetto della sua dimensione storica, rende un servizio al bisogno di imitazione dei discepoli odierni.

    Il metodo storico ha permesso in passato il decollo dell’ecumenismo tra esegeti cattolici e protestanti accomunati da un approccio che non compromette il dogma. Oggi però è urgente una presentazione storica dei fondatori delle grandi religioni che sia rivolta a tutti. Anche i non appartenenti alle Chiese, come nel nostro caso Corrado Augias, devono poter interrogare dal proprio punto di vista la ricerca storica su queste grandi figure che appartengono non solo alle rispettive religioni, ma anche all’umanità intera. Un dialogo ragionevole ci attende come contributo alla convivenza. Evitiamo condanne sbrigative, fonti di tanti tragici errori nei secoli passati.



    Ravasi: ma la dimensione religiosa risulta sostanzialmente amputata

    Le dichiarazioni del professor Pesce sono significative e interessanti, e, rispetto al merito del contendere (le poche righe da me riservate al libro Inchiesta su Gesù), anche un po’ sorprendenti. La distinzione tra storiografia e teologia è essenziale per tutti: io stesso – e il professor Pesce sicuramente lo ricorderà – ho a suo tempo nettamente polemizzato sui giornali col professor Carsten Thiede per le derive apologetiche e fin fondamentaliste presenti in alcuni suoi scritti, così come ho fatto col professor Ambrogio Donini per le sue impostazioni paleomarxiste positivistiche. Ora Pesce, venendo incontro alla sintetica proposta metodologica avanzata nel mio articolo su Famiglia Cristiana, afferma di sostenere:

    «una razionalità aperta al riconoscimento del soprannaturale»;

    «la veridicità dei racconti dei miracoli»;

    «la veridicità dei racconti di risurrezione»;

    la storicità delle «esperienze del Battesimo/Tentazioni e della Trasfigurazione»;

    la coerenza tra «la dimensione totalmente religiosa, mistica, verticale» (e quindi trascendente) della persona di Gesù con «la concentrazione sulla giustizia, sui bisogni degli uomini e sul sociale»;

    l’«estraneità della contrapposizione Gesù sì - Chiesa no» al suo pensiero.

    A questo punto i lettori si domanderanno: ma che cos’hanno mai da litigare i recensori critici dell’Inchiesta con Pesce? In realtà le cose non stanno propriamente così nel testo, ben comprendendo il genere del libro destinato al dialogo anche con «i non appartenenti alle Chiese» e basato su un impianto a intervista in cui le domande sono anch’esse fondamentali. È ovvio che qui non possiamo dimostrare, punto per punto, di non essere caduti in un abbaglio. Ci basti, allora, solo un esempio su un dato capitale, quello della Risurrezione: Pesce afferma giustamente che «le sue "prove" consistono nelle apparizioni avvenute dopo la morte in croce». Ebbene qual è il loro portato storico, sempre secondo il professore? Si tratta di «visioni isteriche…, un portato del desiderio, una potente proiezione dell’inconscio… Oggi alcuni studiosi cattolici le interpretano come stati alterati di coscienza» (pp. 177, 182, 184). In pratica, allucinazioni, prive di rilevanza "oggettiva".

    Gesù rimane solo un ebreo storico significativo il cui «messaggio è però sostanzialmente diverso da quello del cristianesimo successivo» col quale c’è «una differenza fondamentale, direi una discontinuità: se vogliamo, un tradimento di Cristo rispetto a Gesù» (pp. 55 e 58). Si ha l’impressione che «la dimensione totalmente religiosa, mistica, verticale», trascendente sia nel libro sostanzialmente "amputata" secondo un filtro di per sé legittimo, anche se a nostro avviso troppo minimalista.

    Nel nostro articolo su questa testata volevamo suggerire – secondo i più recenti orientamenti – un altro filtro più raffinato e articolato che, pur tenendo netta la distinzione tra scienza storica e riflessione teologica, affrontasse storicamente anche l’ambito "mistico" della realtà esistenziale umana in modo meno semplificatorio.

    Si deve, comunque, riconoscere al professor Mauro Pesce, autore di scritti di rilievo e di qualità sulle origini cristiane, che il sasso lanciato nello stagno "laico" ha provocato onde vivaci di interesse anche fuori di quelle sponde, onde capaci di riportare al centro dell’attenzione la figura di Gesù Cristo.
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    Ratzigirl
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    Registrato il: 10/05/2005
    Utente Gold
    00 22/02/2007 23:56
    Parla Mons. Betori

    Quel Cristo ridotto a un'idea

    [
    /G]
    «La storicità del Messia viene posta in discussione e il suo messaggio diventa un’etica o una chimera nella logica di un dialogo coi non credenti»


    Di Giuseppe Betori


    In occasione dei trent'anni della fondazione del Centro di studi biblici di Sacile (oggi diretto da monsignor Rinaldo Fabris), monsignor Giuseppe Betori, biblista e segretario generale della Cei, apre stasera il ciclo di conferenze «Leggere la Bibbia oggi» con una prolusione che inquadrerà le questioni sul tavolo nel dibattito e nella ricerca di teologi, esegeti e biblisti. Seguiranno poi altri incontri fino al 29 marzo. Della relazione di Betori, che avrà inizio alle ore 20,30 presso il Teatro Ruffo di Sacile (Pordenone), anticipiamo alcuni brani che affrontano il dibattito in corso sulla storicità del testo biblico.



    In quale contesto avviene oggi la nostra lettura della pagina biblica? Semplificando, e quindi facendo qualche inevitabile torto, potremmo dire di trovarci all’interno di una tensione tra due approcci alla Bibbia, ambedue poco rispettosi del testo e pericolosi per la fede.
    Da una parte troviamo una lettura che cede alle istanze razionaliste che dominano alcuni settori della cultura contemporanea e che portano allo svuotamento della realtà storica della Bibbia, e del Vangeli in particolare, con la conseguenza di ricacciare i libri biblici tra la letteratura di finzione, al massimo apprezzabile per la forma letteraria di qualche sua pagina, oppure di configurarla come una fonte mitologica di istanze etiche. La tendenza è antica, e nell’epoca moderna ha assunto per i Vangeli diversi volti dal XVIII secolo in poi: quelli più significativi e incidenti nella cultura corrente sono la variante cosiddetta "liberale", che riduce Gesù a un maestro di principi etici umanistici, e quella bultmanniana, che ne fa una figura irraggiungibile ma il cui annuncio produce quella decisione esistenziale con cui l’uomo si appropria di se stesso e del suo futuro. Su queste radici si innestano poi le varianti del Gesù rivoluzionario o del Gesù vittima di illusori sogni escatologici, cui sarebbe succeduta una Chiesa che si colloca invece nel tempo. Il riduzionis mo proprio di questo tipo di lettura illude pensando di allinearla agli standards delle scienze naturali, peraltro racchiuse in una ristretta e falsa prospettiva positivistica, laddove tutta l’epistemologia storiografica ha ben evidenziato come sia ineliminabile l’apporto del soggetto attore della comprensione del dato storico, così che a ben vedere le presunte letture scientifiche dei Vangeli altro non sono che proiezioni su Gesù di pregiudizi filosofici o ideologici con cui i diversi autori se ne annettono la figura e la rendono spendibile per i propri progetti sociali o culturali.

    L'altro polo della tensione è costituito da una lettura che potremmo definire "ingenua" del testo biblico, che si rifiuta di prenderne in considerazione le componenti storiche e letterarie. È un approccio acritico, che si propone anch’esso con diverse varianti, due delle quali meritano una specifica attenzione. La prima è rappresentata dall’approccio fondamentalista, che rifiutando di considerare i condizionamenti storico-letterari del testo alimenta una figura della fede chiusa all’incontro con la cultura e diventa fattore non secondario di forme intransigenti e settarie della religione. Essa ha dietro di sé una lunga storia, soprattutto in ambito protestante, e si manifesta ancora viva in quegli ambienti, pur non essendo del tutto estranea al mondo cattolico. La seconda variante, questa più diffusa in ambito cattolico, è quella che si configura come lettura finalizzata a produrre immediati risvolti emotivi, che prescindono da ogni giudizio di attendibilità e ragionevolezza circa i contenuti. Qui a entrare in gioco è una percezione della fede come alternativa alla ragione, che raggiunge di fatto gli stessi esiti dell’approccio razionalista circa il fondamento storico della fede, pur partendo da presupposti diametralmente opposti.
    Le posizioni non sono probabilmente rintracciabili nel nostro vissuto con la nettezza dei contorni con cui le ho state appena descritte. Le sfumature con cui esse di fatto si presentano sono molte, ma non è difficile ricondurle a questo o all’altro modello di fondo. Quel che però deve soprattutto preoccuparci è che ambedue i poli della tensione conducono di fatto a una scissione tra la dimensione storica e quella della fede. Ciò vale per ogni momento della storia della salvezza, ma ha una pregnanza specifica per il suo centro, là dove si genera l’opposizione tra il Gesù storico e il Cristo della fede, che è una delle eredità più negative della modernità, che non smette di produrre anche oggi i suoi frutti perversi, sia all’interno dell’esperienza di fede sia nel dialogo con la cultura contemporanea.

    Proprio l’unità tra il piano della storia e quello della fede è invece elemento determinante dell’autenticità della fede da una parte e fattore di coerenza per un approccio che voglia essere veramente storico, come continua a ricordarci il Santo Padre con il suo richiamo all’allargamento della ragione. Sarebbe infatti contraddittorio per l’onestà della ricerca storica voler prescindere della dimensione trascendente nel trattare un oggetto, quello storico-salvifico e in specie quello di Gesù Cristo, che si presenta come fatto che rimanda al di là della storia stessa. Come si fa a parlare di Gesù prescindendo volutamente dalla rivendicazione storica della sua messianicità e del suo rapporto unico con il Padre?
    Mi sia permesso focalizzare il problema generale della lettura del testo biblico proprio a partire dalla figura di Gesù. La domanda con cui dobbiamo confrontarci può essere cosi formulata: è proprio vero che per fare storia si debba espungere Dio dall’orizzonte? È una storia corretta quella che si limita a prendere atto dello sviluppo delle credenze religiose, senza nulla dire sui fondamenti che le generano? Quasi che la rivendicazione da parte di Gesù di un rapporto unico con il Padre (il Padre "mio e vostro" [cf Gv 20,17], ma mai il Padre "nostro", detto al tempo stesso di Gesù e dei discepoli), che ness una analisi dei vari strati della tradizione evangelica potrà mai cancellare e che con Gesù stesso la successiva espressione della fede ha catalizzato nella denominazione e figura del Figlio di Dio, possa essere cancellata solo perché con essa l’uomo Gesù, il solo di cui si potrebbe parlare, aprirebbe il varco su un orizzonte, quello divino che è precluso all’umana ragione!
    A pensarci bene siamo di fronte a una variante di quella espulsione della trascendenza dall’esperienza dell’umano che dall’ambito della vita sociale viene qui spostata a quello della conoscenza. Fare il contrario non implica per sé un’adesione di fede, ma semplicemente non cancellare dal dato storico quegli elementi che aprono la possibilità della fede: Anche se c’è poi da aggiungere che, vista la pretesa di Gesù di un suo specifico rapporto filiale con il Padre, diventa logico che la più compiuta comprensione di lui e di ciò che da lui è nato la si ha ponendosi nella sua stessa prospettiva, quella della fede.

    Dietro a tutto ciò sta il problema ben noto della presunta opposizione "ragione o fede", dando per scontato che per l’uomo contemporaneo non possa darsi "ragione e fede". Eppure non dovrebbe essere difficile riconoscere che la ragione lasciata a se stessa non è capace di rispondere a tutto e alla fine si dissolve nei mille irrazionalismi che dominano la cultura diffusa. Non è pertanto strano che sia la Chiesa oggi ad apparire come l’ultimo vero difensore della ragione, proprio perché non la vede come nemica della fede, purché non la si voglia utilizzare in senso esclusivista.
    Attendiamo con impazienza il libro di Benedetto XVI su Gesù di Nazaret, certi che da esso verrà la migliore risposta su come la ricerca storica possa stare nella compagnia della fede e, guardando a Gesù, sia capace di offrirne un volto assai più attendibile di quello mutilo e insignificante, appiattito sulla normalità del suo tempo, che certi uomini di cultura e storici del cristianesimo, mal guidati da stravolgimenti ideologici, sanno offrirci.
    Al fondo sta il fatto che non è possibile comprendere un libro al di fuori dell’orizzonte in cui esso è venuto alla luce, il che significa per la Bibbia al di fuori di quella comunità di fede che lo ha prodotto e se ne fa custode nel tempo, tramandandolo e invitando alla lettura. Leggere la Bibbia nella Chiesa non è quindi sfuggire alla correttezza di un approccio critico, ma rispondere alla prima delle esigenze critiche, che dice come ogni libro vada letto nel contesto della sua produzione.

    Ci aiuta in questo il Concilio Vaticano II che ci invita a essere rispettosi delle dimensioni umane, storiche e letterarie, dei testi biblici ma, al tempo stesso, del loro collocarsi all’interno di un contesto di fede che ne è fattore essenziale di interpretazione. Dice il Concilio: "Poiché Dio nella sacra Scrittura ha parlato per mezzo di uomini alla maniera umana, l’interprete della sacra Scrittura, per capire bene ciò che egli ha voluto comunicarci, deve ricercare con attenzione che cosa gli agiografi abbiano veramente voluto dire e a Dio è piaciuto manifestare con le loro parole. Per ricavare l’intenzione degli agiografi, si deve tener conto fra l’altro anche dei generi letterari. La verità infatti viene diversamente proposta ed espressa in testi in vario modo storici, o profetici, o poetici, o anche in altri generi di espressione. È necessario adunque che l’interprete ricerchi il senso che l’agiografo in determinate circostanze, secondo la condizione del suo tempo e della sua cultura, per mezzo dei generi letterari allora in uso, intendeva esprimere e ha di fatto espresso. Per comprendere infatti in maniera esatta ciò che l’autore sacro volle asserire nello scrivere, si deve far debita attenzione sia agli abituali e originali modi di sentire, di esprimersi e di raccontare vigenti ai tempi dell’agiografo, sia a quelli che nei vari luoghi erano allora in uso nei rapporti umani". È così conclude il Concilio: "Perciò, dovendo la sacra Scrittura esser letta e interpretata alla luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta, per ricavare con esattezza il senso dei sacri testi, si deve badare con non minore diligenza al contenuto e all’unità di tutta la Scrittura, tenuto debito conto della viva tradizione di tutta la Chiesa e dell’analogia della fede" (Dei Verbum, 12).
    Il rapporto con la Chiesa per una corretta lettura della Bibbia non è solo legato alla Chiesa delle origini, in quanto orizzonte nel cui contesto il Primo Testamento viene accolto e i libri del Nuovo Testamento vengono generati. Esso riguarda anche la Chiesa oggi, per ragioni ancora al tempo stesso di fede e di sana ermeneutica. Non solo infatti la fede ci dice che non possiamo comprendere la parola del Signore se non alla luce del suo Spirito vivente nella Chiesa, ma anche la dinamica propria della comprensione storica richiede che ogni testo sia compreso alla luce della storia degli effetti che da esso sono scaturiti, cioè di quella stessa storia di verità e di santità che è la vita della Chiesa nel tempo.

    [Modificato da Ratzigirl 22/02/2007 23.57]

    [Modificato da Ratzigirl 22/02/2007 23.57]

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    00 25/02/2007 14:10
    Anche Betori affonda il “mal guidato” professor Pesce


    “Attendiamo con impazienza il libro di Benedetto XVI su Gesù di Nazaret, certi che da esso verrà la migliore risposta su come la ricerca storica possa stare nella compagnia della fede e, guardando a Gesù, sia capace di offrirne un volto assai più attendibile di quello mutilo e insignificante, appiattito sulla normalità del suo tempo, che certi uomini di cultura e storici del cristianesimo, mal guidati da stravolgimenti ideologici, sanno offrirci”.

    Questo ha detto il segretario generale della conferenza episcopale italiana, Giuseppe Betori, nel mezzo di una seguitissima relazione letta il 22 febbraio a Sacile, provincia di Pordenone, in occasione dei trent’anni del Centro di studi biblici diretto da Rinaldo Fabris (inspiegabilmente assente).

    Il riferimento polemico, trasparente, è al libro “Inchiesta su Gesù” scritto da Corrado Augias e Mauro Pesce.

    Quanto al libro di Benedetto XVI, uscirà tra poche settimane contemporaneamente in cinque lingue: in italiano, inglese, tedesco, francese, spagnolo. Seguiranno subito dopo le edizioni in portoghese e in polacco e poi, man mano, in un’altra dozzina di lingue, dal croato al coreano.

    Un ampio estratto della relazione di Betori, che anticipa i criteri con i quali Benedetto XVI racconterà la vicenda di Gesù, è uscito su “Avvenire” del 22 febbraio.
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    00 26/02/2007 15:11
    segnalazione

    Gianluca ha segnalato questo appuntamento previsto per domani:


    Domani un incontro a Roma sui ritratti originali di Gesù, il Cristo


    L’attualità della figura di Gesù, la sua identità come viene presentata nelle testimonianze del Nuovo Testamento con l’ausilio dell’esegesi critica, la risposta alle tesi di Corrado Augias e Mauro Pesce in “Inchiesta su Gesù” e di Dan Brown ne “Il Codice Da Vinci”: questi alcuni dei temi che verranno affrontati nel prossimo appuntamento di “Viam scire”, itinerario di formazione promosso dal Servizio per il progetto culturale della diocesi di Roma, in programma il 28 febbraio, alle 19.30, nell’aula della Conciliazione del Palazzo Lateranense, su “Ritratti originali di Gesù, il Cristo”. Interverrà mons. Romano Penna, ordinario di Sacra Scrittura nella facoltà di teologia dell’Università Lateranense. “L’obiettivo dell’incontro – informa l’Ufficio stampa della diocesi - è fare il punto sulle posizioni tra ricerca storiografica da una parte, e figura storica di Gesù, dall’altra”. La prima - spiega mons. Sergio Lanza - responsabile di Viam Scire – “ha semplicemente l’obiettivo di saggiare le basi dell’edificio evangelico, attraverso lo studio ad esempio dei contesti culturali, politici o geografici del tempo, e non la veridicità storica di Gesù, che invece poggia proprio sulla rivelazione neotestamentaria”. Un punto, quest’ultimo, che sarà anche al centro del libro su Gesù, scritto da Benedetto XVI e in uscita in primavera.
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    00 02/03/2007 00:19


    La tomba di Gesù, uno “scoop” che non esiste, secondo l’Arcivescovo Bruno Forte

    Chiarimento del membro della Commissione Teologica Internazionale

    L’annuncio della scoperta della presunta tomba di Gesù è contraddetto non solo dall’archeologia, ma anche dalla storia, ha affermato uno dei teologi cattolici di maggior prestigio.


    Monsignor Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto, membro della Commissione Teologica Internazionale, ha analizzato con ZENIT le presunte rivelazioni promesse dal documentario “The Lost Tomb of Jesus”, realizzato dai cineasti James Cameron e Simcha Jacobovici

    Per il Presidente della Commissione Episcopale per la Dottrina della Fede, l'Annuncio e la Catechesi della CEI, “il dato di fatto è che si parla di tombe antiche, alcune del I secolo, scoperte nel quartiere di Talpiot, agli inizi degli anni Ottanta, con su incisi dei nomi fra cui quelli di Gesù, Maria, Giuseppe, Matteo... Questo è il dato di fatto”.

    “Ma di tombe del genere ci sono tante nel territorio della Terra Santa. Dunque, niente di nuovo sotto il sole”, ha spiegato.

    “Perché tanto chiasso?”, si è domandato, rispondendo: “Perché Hollywood ha voluto tentare uno scoop. Visto il successo di operazioni come quelle de ‘Il Codice da Vinci’, si è voluto tentare un analogo successo, giocando su una vera questione che qui viene posta in gioco, cioè, se Gesù è veramente risorto”.

    “Perché la tesi lanciata è che se lì è sepolto Gesù con la sua famiglia, dunque la Risurrezione sarebbe nient’altro da un’invenzione dei discepoli”, riconosce.

    “Ora, a parte l’inconsistenza della prova archeologica, che è stata totalmente contestata anche da archeologi israeliani, il dato di fatto della Risurrezione viene documentato in maniera rigorosa nel Nuovo Testamento dai tanti racconti delle apparizioni: le cinque tradizioni, i quattro Vangeli e Paolo”.

    “Sappiamo come questi racconti siano stati interpretati anche in un senso riduttivo dalla critica liberale dell’Ottocento. Addiritura Renan è arrivato a dire che la risurrezione si spiegava perché la passione di una allucinata, di un’esaltata, aveva risuscitato un Dio al mondo, potenza divina dell’amore”.

    “In realtà però, tutti gli studi critici in questi due secoli hanno dimostrato che nella verità profonda dei racconti delle apparizioni c’è una incontestabile radice di storicità”, aggiunge.

    Secondo il presule, “c’è un vuoto fra il Venerdì Santo, quando i discepoli hanno abbandonato Gesù, e la Domenica di Pasqua, quando essi sono diventati i testimoni di Lui risorto con un tale slancio e coraggio di portare l’annuncio a tutti i confini della terra e di dare la vita per esso”.

    “Che cosa è successo? – si è chiesto l’Arcivescovo –. Lo storico profano non lo spiega. I Vangeli ce lo fanno capire. C’è stato un incontro che ha cambiato la loro vita”.

    “E questo incontro narrato nei racconti delle apparizioni è segnato da un dato fondamentale, che l’iniziativa non è dei discepoli, ma è di Lui, il Vivente, come dice il Libro degli Atti 1, 3, ‘Egli si mostrò ad essi vivo’”.

    “Questo significa che non è qualcosa che diviene nei discepoli, ma qualcosa che avviene a loro. Ed è a partire da questo che nella storia il nome di Cristo viene annunciato in uno slancio che ha coinvolto geni del pensiero, certamente non visionari, da Agostino a Tommaso, a Madre Teresa di Calcutta per fare soltanto alcuni esempi”.

    Forte riconosce che lo “scoop” parla di un interesse della gente su Gesù, perché altrimenti queste notizie passerebbero inosservate.

    “Perché si punta mediaticamente tanto su una curiosità che riguarda Gesù?”, ha proseguito. “Evidentemente perché Gesù è nel profondo della cultura dell’Occidente, e non solo, un riferimento talmente decisivo e importante che tutto ciò che lo riguarda ci riguarda”.
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    Ratzigirl
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    00 02/03/2007 00:43

    "Codice da Vinci poco serio, l´Inchiesta su Gesù non tiene conto della fede"

    Ieri a Roma la conferenza storico-religiosa voluta dal cardinale Ruini
    Obiettivo: "Nessuna polemica, difendiamo la parola del Vangelo"
    Le "prove": brani storici di Tacito, Svetonio, Plinio e poi i racconti apostolici



    Nessun rogo per quei libri «scomodi» che trattano Gesù come un «semplice» uomo, privo di quell´alone di sacralità tramandataci da oltre due mila anni dalla tradizione cristiana. Nessun rogo, ma solo «confronto, approfondimento, difesa delle fonti storiche evangeliche che parlano di Cristo come di vero Dio e vero uomo». Questa, in estrema sintesi, la diplomatica "sentenza" emessa ieri sera dal simbolico tribunale ecclesiastico, nell´aula della Conciliazione del Palazzo del Laterano, alla conferenza su "Ritratti originali di Gesù, il Cristo" organizzata nell´ambito del Progetto Culturale promosso dal cardinale vicario Camillo Ruini. Un incontro di studio sulle «autentiche radici di Cristo e del cristianesimo», presentato da un comunicato ufficiale del Vicariato come una sostanziale risposta alle «storture» cristologiche contenute in due best seller, Il Codice da Vinci di Dan Brown e Inchiesta su Gesù scritto a quattro mani dal giornalista Corrado Augias - presente ieri sera nell´aula della Conciliazione - e dallo storico Mauro Pesce.
    «Non vogliamo polemizzare, ma solo riflettere, interrogarci e approfondire la nostra conoscenza delle radici cristiane, partendo anche dal dibattito suscitato dalle approssimazioni emerse da alcune opere recenti», ha esordito monsignor Sergio Lanza, docente alla Pontificia università Lateranense. «Se poi queste opere contrastano con le nostre convinzioni è ancora meglio, perché - secondo il monsignore - ci costringono a ragionare ancora di più. Ma parliamo di opere serie, e non di libri come Il Codice da Vinci che opera seria non è». Più pacato il giudizio su Inchiesta su Gesù. Sia Lanza che il relatore, lo storico del Cristianesimo Antico monsignor Romano Penna, hanno dato atto ai due autori di aver fatto «comunque» un «indubbio sforzo di ricerca e di approfondimento col quale è giusto confrontarsi». Ed infatti, nella sua esposizione Penna ha illustrato le fonti storiche della vita di Gesù, attingendo sia dai quattro Vangeli canonici, che da quelli apocrifi, facendo anche riferimento alle fonti ebraiche. E come «prove» ha citato brani di storici come Tacito, Plinio, Svetonio, Giuseppe Flavio, partendo ovviamente dalle testimonianze di chi visse con Gesù, gli apostoli, di chi lo vide morire sulla croce e risorgere. «L´originaria molteplicità dei ritratti storici di Gesù - è il ragionamento di Penna - mette in luce quanto la sua statura personale superi le nostre comuni comprensioni umane e richiede un´onesta disponibilità al suo mistero». Senza questa «disponibilità non si può conoscere a fondo Gesù». E sta proprio qui, fa capire il docente, l´aspetto meno convincente dell´Inchiesta di Augias-Pesce.
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    Sihaya.b16247
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    00 15/03/2007 19:49
    Da Avvenire
    Lo sbaglio di J. Sobrino nel ridimensionare la divinità di Cristo

    L'illusione di servire i poveri impoverendo Gesù


    Ignazio Sanna

    La prima indicazione della Notificazione della Congregazione per la Dottrina della Fede sulle opere di padre Jon Sobrino è di carattere metodologico, e riguarda la necessità, nel fare teologia, di rispettare la gerarchia dei cosiddetti "luoghi teologici". Com’è ben noto, i classici dieci loci theologici elencati a suo tempo da Melchior Cano sono: la Scrittura; la tradizione orale apostolica e di Cristo; la Chiesa cattolica; i Concili; la Chiesa romana; i Padri della Chiesa; i teologi; la ragione naturale; i filosofi; la storia umana. I primi sette sono considerati "proprii", mentre gli ultimi tre vengono definiti "ascripticii". La Sacra Scrittura è elencata per prima, anche se essa, in realtà, non ha goduto sempre un ruolo privilegiato nell’impostazione e nell’insegnamento dei trattati teologici in genere, e la storia umana per ultima. In verità, la stagione teologica conciliare ha aggiunto ai loci theologici classici quello particolare della lettura dei "segni dei tempi", che assume le istanze del mondo contemporaneo e le vicende storiche come interlocutrici obbligate della ragione teologica (Cf GS,4,11,44; PO,9; UR, 4; AA,14). Ma va precisato che l’espressione «scrutare i segni dei tempi» implica l’intelligenza dei "luoghi" della Parola di Dio nel mondo, che, secondo Congar, è la Chiesa diventata storia. Attesa questa realtà, non può essere valida l’impostazione metodologica del Sobrino, secondo cui «la Chiesa dei poveri è il luogo ecclesiale della cristologia ed offre ad essa l’orientamento fondamentale». La nota esplicativa della Congregazione ribadisce giustamente che «la verità rivelata da Dio stesso in Gesù Cristo, e trasmessa dalla Chiesa, costituisce dunque il principio ultimo e normativo della teologia», e che «l’unico "luogo ecclesiale" della cristologia è la fede apostolica trasmessa dalla Chiesa». È chiaro che il problema metodologico della cristologia di Sobrino è il problema dell’inserimento dell’esperienza umana nel circolo ermeneutico della teologi a. Ma è sempre bene ricordare il detto di San Bonaventuta: «ad Deum nemo intrat recte nisi per Crucifixum», e che il mistero di Dio, di conseguenza, non si lascia catturare mai pienamente dalla sapienza del mondo o dalla ragione umana.
    2. Il rispetto della metodologia teologica porta al rispetto dell’identità di Gesù. Gesù è il Figlio. È stato generato da Dio Padre. Giovanni Paolo II ha scritto che «per quanto sia lecito credere che, per la condizione umana che lo faceva crescere "in sapienza, età e grazia" (Lc 2, 52), anche la coscienza umana del suo mistero sia progredita fino all’espressione piena della sua umanità glorificata, non è lecito dubitare che già nella sua esistenza storica Gesù avesse coscienza della sua verità, cioè di essere veramente il Figlio di Dio. Giovanni lo sottolinea a tal punto da affermare che fu, in definitiva, per questo, che fu respinto e condannato: infatti "i Giudei cercavano di ucciderlo, perché non solo violava il sabato, ma anche chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio" (Gv 5, 18). Negli eventi dell’orto del Getsemani e del Calvario, la coscienza umana di Gesù sarà sottoposta alla prova più dura. Tuttavia neanche la tragedia della passione e della morte potrà intaccare la sua tranquilla certezza di essere il Figlio del Padre celeste» (NMI, 24). Non si può impoverire Gesù con l’illusione di promuovere i poveri. Si impoverisce Gesù Cristo se si ridimensiona la sua divinità di Figlio di Dio. Non dovrebbe essere di grande aiuto per i poveri annunciare loro un Gesù uomo come gli altri uomini. Se Gesù è uno dei tanti salvatori, uno dei tanti maestri di morale, perde la sua valenza salvifica singolare, e i molti salvatori si eliminano a vicenda. Nel descrivere la singolarità e l’unicità della mediazione di Gesù Cristo, perciò, non è sufficiente un’ermeneutica politica, basata sull’analisi sociologica, che presenta Gesù come liberatore e come soggetto di una prassi rivoluzionaria.
    3. Sia il rispetto della metodologia che quello dell’identità portano al rispetto della funzione salvifica di Gesù. Gesù è il Redentore dell’uomo, perché è Dio. Un Gesù uomo come noi può essere modello solo di umanità perfetta, mentre un Gesù Dio-uomo è fonte unica della redenzione dell’uomo. Nello studio della cristologia, quindi, è senz’altro legittimo l’approccio antropologico, purché non sia in antitesi a quello teologico. La salvezza, infatti, non può essere ridotta ad un processo di auto-redenzione. Ora, la cristologia del Sobrino non sembra eliminare questa antitesi. Secondo lui, «l’aspetto più storico del Gesù storico è la sua prassi, è cioè la sua attività per operare attivamente sulla sua realtà circostante, e trasformarla in un indirizzo determinato e voluto in direzione del regno di Dio. È la prassi che ai suoi giorni scatenò storia e che giunge fino a noi come storia scatenata». Giovanni Paolo II ha ribadito chiaramente che il teocentrismo non è in antitesi con l’antropocentrismo, e che la Chiesa, «seguendo il Cristo, ha cercato di congiungerli nella storia dell’uomo in maniera organica e profonda» (DM,1). Proprio sulla base dell’intrinseca relazione tra teocentrismo e antropocentrismo, possiamo affermare che l’umanità di Gesù è l’umanità del Figlio di Dio, fatto uomo per noi e per la nostra salvezza. Secondo il Concilio Vaticano II, «il Figlio di Dio, unendo a sé la natura umana e vincendo la morte con la sua morte e risurrezione, ha redento l’uomo e l’ha trasformato in una nuova creatura» (LG,7). Va ribadito con chiarezza che Gesù ha attribuito un significato salvifico alla sua morte, anche se «il Figlio di Dio crocifisso è l’evento storico contro cui s’infrange ogni tentativo della mente di costruire su argomentazioni soltanto umane una giustificazione sufficiente del senso dell’esistenza. Il vero punto nodale, che sfida ogni filosofia, è la morte in croce di Gesù Cristo. Qui infatti, ogni tentativo di ridurre il piano salvifico del Padre a pura logica umana è destinato al fallimento» (FR,23).
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    -Asmodeus-
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    Utente Junior
    00 15/03/2007 20:16
    Avreste gentilmente dei link per capire bene cosa dica la Teologia della Liberazione di Sobrino?

    Conosco poco, e l'unica fonte (scarna, anzichenò) è la wiki.

    Danke. [SM=g27823]
    Io seguo sempre il gregge.

    Sono il lupo.

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    Sihaya.b16247
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    Utente Master
    00 15/03/2007 20:30
    Re:

    Scritto da: -Asmodeus- 15/03/2007 20.16
    Avreste gentilmente dei link per capire bene cosa dica la Teologia della Liberazione di Sobrino?

    Conosco poco, e l'unica fonte (scarna, anzichenò) è la wiki.

    Danke. [SM=g27823]



    La "Teologia della Liberazione" è un "movimento" che nasce e si sviluppa in Sud e Centro America , in cui la predicazione cristiana diventa sociale, politica, in odore di marxismo e vicina alla guerriglia di ispirazione socialista.

    In particolare, Sobrino sembra privilegiare l'aspetto umano e storico di Gesù a quello divino.


    Dal Vaticano altolà al teologo Sobrino
    Il gesuita salvadoregno è uno dei padri della teologia della liberazione. Troppo valorizzato l'aspetto storico di Gesù


    Jon Sobrino (Ansa)

    CITTÀ DEL VATICANO - La Congregazione per la dottrina della fede (ex Santo Uffizio) ha definito contrarie alla dottrina cattolica due opere di Jon Sobrino, gesuita salvadoregno considerato uno dei padri della teologia della liberazione. I libri sotto accusa sono «Gesù Cristo liberatore - Lettura storico teologica di Gesù di Nazareth» del 1991, e «La fede in Gesù Cristo» del 1999. Si tratta del primo provvedimento del genere della Congregazione dall'elezione di Benedetto XVI. Quando Joseph Ratzinger era vescovo di Monaco finanziò la traduzione in tedesco della tesi di dottorato di Sobrino.

    TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE - La decisione di esaminare gli scritti del teologo gesuita, che con Leonardo Boff e padre Casaldaliga è uno dei maggiori esponenti della Teologia della liberazione, è stata presa nel 2001 (quando a dirigere la Congregazione era proprio Ratzinger). Fra le affermazioni di Sobrino giudicate «pericolose» vi quelle che mettono in dubbio punti cruciali della fede, come la divinità di Gesù Cristo, l'incarnazione del Figlio di Dio, la relazione di Gesù con il Regno di Dio, la sua autocoscienza e il valore salvifico della sua morte. I rilievi critici del Vaticano a Sobrino sono di aver valorizzato troppo la componente storica della figura di Gesù separandola dalla sua dimensione divina.
    PADRE LOMBARDI - «Sobrino è uomo che ha vissuto da vicino l'esperienza drammatica del suo popolo, per questo ha teso a sviluppare una "cristologia dal basso" e ha coltivato una sintonia spirituale profonda con l'umanità di Cristo», ha commentato la notificazione della Congregazione per la dottrina delle fede il direttore della sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi. «Tuttavia l'insistenza di Sobrino sulla solidarietà fra Cristo e l'uomo non deve essere portata al punto da lasciare in ombra o sottovalutare la dimensione che unisce Cristo a Dio».
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    Sihaya.b16247
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    Registrato il: 15/06/2005
    Utente Master
    00 15/03/2007 20:33
    Intervista a Jon Sobrino
    Questa intervista è tratta dalla rivista Jesus del 3 marzo 2001



    È passato più di un decennio dal massacro dei sei gesuiti dell’Uca, l’Università centroamericana del Salvador: un decennio di disillusioni e, soprattutto, di impunità per i colpevoli. Ciononostante, racconta il noto teologo scampato all’eccidio, la scelta dei poveri non è stata archiviata e la teologia della liberazione è sempre viva.
    «Il terremoto ci ha dato la radiografia del Paese. Le baracche sono crollate subito. Le case "belle" hanno resistito meglio. Tutti hanno sofferto, ma la maggior parte delle vittime si è avuta tra la povera gente». Il gesuita Jon Sobrino è uno dei più conosciuti teologi della liberazione in America latina. È nato in Spagna nel maggio del 1938, ma vive in Salvador dal ’57. Conosce bene, quindi, la storia e le occasioni mancate di un Paese che «ogni quindici-venti anni deve fare i conti con la terra che trema, senza che la tragedia serva a prevenire quelle future».

    Il terremoto del 13 gennaio ha risparmiato l’Università centroamericana (Uca) dove il religioso lavora. E non ha danneggiato "la stanza della memoria", dove ci si ritrova per studiare. La chiamano così dal 16 novembre 1989, quando i militari dell’esercito salvadoregno fecero irruzione, ammazzando a sangue freddo sei gesuiti, la cuoca e la figlia quindicenne. Cinque dei sei religiosi erano professori. «Nella nostra università, la teologia si studia materialmente nel luogo dove sono stati uccisi padre Ellacuría e gli altri. È la sala della memoria, per dire che la nostra teologia è radicata nei martiri, è ispirata dal Cristo morto e risuscitato».

    Padre Sobrino era collega e confratello dei sei uccisi. Anche lui sulla lista nera dei militari, si è salvato dall’eccidio per caso: in quei giorni si trovava in Thailandia per un corso di cristologia. «Certo, finita la rivoluzione è più facile essere profeta», dice oggi Sobrino. «Ai tempi di monsignor Oscar Romero, la fedeltà alla verità e alla scelta dei poveri inaugurata dalla conferenza di Medellín portava al martirio. La memoria dei martiri è un dovere. All’inizio prevale l’orrore, ma una volta superato, si parla dei morti e si fa educazione».


    In questi anni i gesuiti hanno chiesto giustizia in tutte le sedi, ma oggi la speranza sembra naufragata definitivamente. Gli esecutori della strage, condannati a 30 anni di carcere e poi liberati in seguito all’amnistia decretata alla fine della guerra civile, possono circolare senza problemi: il 12 dicembre, infatti, il reato è caduto in prescrizione, dal momento che sono trascorsi i dieci anni che la legge prevede per la punibilità degli imputati. È così andata in fumo la denuncia che il 27 marzo 2000 il rettore dell’Uca, padre José Maria Tojeira, aveva presentato «contro gli autori intellettuali dell’eccidio, sei ufficiali delle Forze armate oggi a riposo, e per favoreggiamento contro Alfredo Cristiani, ex capo dello Stato, attualmente presidente dell’Arena, il partito di estrema destra dell’attuale presidente del Salvador».

    Ma, oltre alla tragedia del terremoto, qual è la situazione oggi in Salvador? Quale l’eredità dei martiri? Padre Sobrino risponde che «dopo gli accordi di pace del ’92 la situazione non è migliorata nelle cose importanti: la povertà, la violenza, i furti, la corruzione sono ancora un problema. C’è disillusione, ed è grave, perché quando un popolo perde la speranza perde la capacità di lavorare, di organizzarsi».

    Quali sono stati gli eventi che in America latina hanno dato un nuovo volto alla Chiesa?
    «In Salvador, come in altri Paesi dell’America latina, dopo la conferenza di Medellín è nata una Chiesa nuova: nasceva dal Concilio ed era ispirata dalla realtà salvadoregna, che è fondamentalmente una realtà di povertà. Sono stati i poveri a cambiare la Chiesa, perché la buona notizia del Vangelo era anche una denuncia molto forte per gli oppressori, per l’oligarchia e il Governo, per i militari e per gli Stati Uniti. È stata la consapevolezza del Vangelo che ha reso più presente il popolo di Dio, al quale si sono uniti religiosi e sacerdoti. Monsignor Romero diceva: "Il popolo è stato il mio profeta". La cosa fondamentale è stato l’aver compreso che Dio sta nella realtà e nei poveri di questo mondo. La Chiesa ha scelto di essere come Gesù di Nazareth, che ha sopportato il suo destino, simile a quello degli ultimi di tutto il mondo».

    Cosa è cambiato in questi anni?
    «Non si può vivere in una situazione eccezionale per tanto tempo. È cambiata l’aria, ci sono stati alcuni interventi del Vaticano e le nomine di nuovi vescovi che hanno portato la Chiesa a evitare il conflitto con i Governi e a promuovere molti movimenti di tipo carismatico e spiritualista. Si tratta di realtà ecclesiali che hanno successo soprattutto tra i poveri, i quali cercano rifugio e sicurezze. Tutto ciò ha procurato un’enorme perdita all’America latina: qui c’è sempre stata una Chiesa popolare, fatta da poveri uniti nelle comunità di base. Oggi la grande battaglia per la speranza rischia di essere disincarnata, perché questi movimenti separano la realtà storica dalla vita eterna. Noi, invece, crediamo in una speranza che parte dai nostri martiri: gente buona, che non ha vinto né Oscar né Nobel, che non ha partecipato a trasmissioni televisive o alla Coppa del mondo, ma ha opposto alla crudeltà l’amore, all’indifferenza la compromissione, alla globalizzazione la parzialità... Come Chiesa che si rifà al martirio di Gesù di Nazareth, è questo ciò che vogliamo comunicare».

    Cosa significa mettere in comunicazione Vangelo e Università?
    «Il Salvador ha sopportato anni di repressione e guerra. I responsabili delle violenze sono gli squadroni della morte, con l’appoggio del Governo e degli Usa, e in misura minore la guerriglia. Il lavoro di Ellacuría è stato molto importante. Fu chiamato "comunista", sospettato perché faceva teologia della liberazione, ma fu un uomo che lavorò per la giustizia e per la pace in tempo di guerra. Per questo lo hanno ammazzato. La strage dell’89 è stata il culmine di anni di persecuzioni. Il 6 gennaio del 1976 misero la prima bomba. L’Uca è una realtà significativa della nazione, si è imposta con pubblicazioni e riconoscimenti, ma spesso sono venuti da noi a cercare armi. Padre Ellacuría non voleva convertire l’Università in un partito politico, né in una Ong: il nostro compito, diceva, è conoscere la realtà per cambiarla. Offriamo al Paese oggettività, dati, abbiamo un istituto di diritti umani, uno di studi economici... La linea resta la stessa: ripensare il problema dei poveri e dare un apporto concreto per cambiarlo».



    Quale continuità per la teologia della liberazione?
    «Parlo di teologia della liberazione solo quando sono all’estero. In Salvador parliamo di Dio, di Gesù Cristo, di poveri e peccato, di grazia. Qual è la condizione della teologia della liberazione oggi? In America latina c’è stato un momento di splendore con Gutierrez, Boff, padre Ellacuría. Oggi un gruppo così non c’è più, ma ciò non significa che non ci sia più la teologia della liberazione, perché questa ha impregnato i modi di essere e di pensare la Chiesa. Il documento che hanno scritto i vescovi americani sull’economia e gli armamenti non sarebbe stato così senza la teologia della liberazione, e lo stesso dicasi per alcuni discorsi di Giovanni Paolo II. Dovunque si adotta la prospettiva della vittima e del povero è presente la teologia della liberazione. È come una ruota con diversi raggi: un raggio mira a che gli indigeni siano coscienti della loro oppressione, ed è la cosiddetta teologia indigena; un altro guarda al mondo africano, un altro alla donna... Sono tutte forme di teologia della liberazione».

    Qual è oggi il contributo più importante dato dalla teologia della liberazione?
    «È il pensare la fede in Dio e in questo mondo di peccato a partire da questa storia. Non può essere una fede intellettuale a cambiare le cose, ma la comprensione di un amore, perché c’è una parzialità in Dio. Paolo dice che Dio perdona il peccatore per grazia: la teologia della liberazione ama il povero per il fatto stesso che è un povero. Non è solo una cosa etica o spirituale o di dottrina sociale, ma è un problema teologale. Insomma, non si tratta di appoggiare Gutierrez, ma di pensare una teologia per i poveri di questo mondo, per i marocchini e gli africani e gli asiatici che vengono in Europa. I poveri di questo mondo chiedono ai teologi di lavorare seriamente per loro. È la domanda di Dio».

    Vittoria Prisciandaro


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    -Asmodeus-
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    Utente Junior
    00 15/03/2007 20:41
    Grazie. [SM=g27811]
    Io seguo sempre il gregge.

    Sono il lupo.

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    Sihaya.b16247
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    Utente Master
    00 15/03/2007 21:29
    Il link ufficiale del Vaticano
    212.77.1.245/news_services/bulletin/news/19856.php?index=19856&po_date=14.03.2007...
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    emma3
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    Utente Veteran
    00 30/03/2007 20:51
    Anche la Chiesa si mobilita per il film che andrà in onda su Raiuno.

    La resurrezione di Gesù, giallo in tv

    Un detective dell’antica Roma al centro de «L’inchiesta». Proiezione in Vaticano


    ROMA — Grande mobilitazione della Chiesa per «L’inchiesta», il tv-movie in due puntate, in onda su Raiuno il 2 e 3 aprile, che racconta l’indagine sulla scomparsa del corpo di Gesù dal Sepolcro dopo la sua crocifissione. Manifesti che tappezzano le facciate di edifici di culto, copertine dei giornali religiosi, una proiezione a maggio nella chiesa di St. Malachy di New York e domenica prossima Papa Benedetto XVI potrebbe partecipare a una proiezione privata in Vaticano.
    Prodotto da Fulvio Lucisano per Rai Fiction con la regia di Giulio Base, il film descrive l’avventura umana e spirituale di un tribuno romano, Tito Valerio Tauro, che viene inviato in gran segreto dall’imperatore Tiberio in Palestina per una missione molto delicata: scoprire la verità sulla condanna a morte di un povero rabbino giudeo, un certo Gesù di Nazareth, che pare sia risorto dalla morte.
    «Uno 007 di duemila anni fa», avverte il protagonista Daniele Liotti, accompagnato da un cast internazionale: tra gli altri, Max Von Sydow (Tiberio), F. Murray Abraham (Nathan), Ornella Muti (Maria Maddalena), Monica Cruz (Tabità), Enrico Lo Verso (Pietro), Anna Kanakis (Claudia Procula, cugina di Tiberio) e Hristo Shopov nei panni di Ponzio Pilato, lo stesso ruolo che aveva in The Passion di Mel Gibson.
    Siamo nell’anno 35 dell’era volgare. Strani fenomeni celesti, un terremoto, l’oscurarsi del cielo come in un’eclissi, turbano l’imperatore Tiberio. È così che richiama dall’esilio Tito Valerio Tauro, il più grande investigatore di Roma, finito nei guai anni prima per aver scoperto troppi fatti scomodi sulla morte del predecessore di Tiberio, l’imperatore Augusto. Se condurrà con successo il difficile compito che gli viene affidato, sarà riabilitato. Dice Liotti: «La forza di questo film sta nel fatto che il protagonista non è presentato come un "santino". Tauro è un uomo diffidente, indurito dalla guerra e parte con un’indagine freddamente razionale: è scettico, non ha la fede, non crede alla trascendenza delle anime, tanto meno alla resurrezione. Ma è l’amore per una donna, la giovane cristiana Tabità, ad aprire il suo cuore. Sarà grazie a questo incontro, che Tauro compirà il salto nel buio, in quella zona dove la ragione non può arrivare».
    Per il grande schermo, già Damiano Damiani nel 1987 realizzò l’omonimo film con Keith Carradine, Harvey Keitel e Phyllis Logan, ispirandosi a un’idea di Ennio Flaiano e Suso Cecchi D’Amico. Il nuovo soggetto, che prende le mosse dallo stesso spunto, è firmato da Valerio Massimo Manfredi, archeologo e autore di best-seller storici, mentre la sceneggiatura è di Andrea Porporati. Riprende Liotti: «Non si può parlare di un vero e proprio remake. L’approccio di Damiani è molto più razionalistico, quasi non lascia spazio a ciò che la ragione, con i suoi limiti, non può spiegare. Noi, per una scelta diversa della sceneggiatura, abbiamo approfondito maggiormente». Una scelta che è piaciuta: «All’anteprima che si è svolta venerdì scorso nella Residenza Universitaria Internazionale dell’Opus Dei - racconta l’attore - il film è stato accolto con caloroso entusiasmo proprio per il messaggio che propone: la fede, prima che questione teologica e trascendente, è questione umana, è una catarsi che avviene nell’animo dell’individuo ».
    Il lavoro uscirà anche in una versione cinematografica in 500 sale americane, distribuito dalla Fox dal 6 aprile, e in dvd è stato inviato a 174 vescovi delle diocesi statunitensi più importanti, mentre dal 4 aprile uscirà anche nei cinema spagnoli. Intanto, Liotti, che a maggio sarà su Canale 5 con Martina Stella in «L’Amore e la Guerra», si prepara a vestire i panni di Biagio Schirò nel «Capo dei Capi», serie- tv in 6 puntate, per la regia di Enzo Monteleone e Alexis Sweet, prodotta da Taodue. Anticipa l’attore romano, che sta prendendo lezioni di «siciliano»: «È un grande affresco della Sicilia, dalla metà anni ’40 agli anni ’90, periodo in cui nasce e cresce il gruppo mafioso dei corleonesi. Io sono un poliziotto che vive nello stesso ambiente, è amico fraterno, da ragazzo, di Totò Riina, ma ne diventerà il più acerrimo nemico: la sua missione, la sua ossessione sarà quella di acciuffare il criminale». Una bella differenza fra Tauro e Schirò. Conclude: «Tutti e due combattono contro due misteri inspiegabili: uno trascendentale e l’altro, purtroppo, molto terreno, la mafia».

    Emilia Costantini corriere online

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    emma3
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    00 05/05/2007 01:05
    Un solo Gesù

    Appartenenza alla Chiesa e rigore storico. Josè Garcìa spiega perché solo con questo duplice metodo si può conoscere l'uomo di Nazaret


    di Persico Roberto

    «Il Papa ha ragione - esordisce senza alcuna esitazione - nell'affrontare la questione di Gesù non si può prescindere dal metodo storico-critico, perché il cristianesimo non è una religione o una filosofia, ma un avvenimento. Il fatto cristiano è un fatto storico: una persona realmente esistita, un uomo come tutti che portava una pretesa dell'altro mondo. Se quest'uomo non è esistito la fede della Chiesa crolla. Se non potessimo dire nulla sul Gesù storico, la fede della Chiesa sarebbe una mistificazione».
    A parlare è padre José Miguel García, studioso spagnolo di storia delle origini cristiane, uomo di punta di quella "scuola di Madrid" che sta dando un contributo fondamentale allo studio delle origini cristiane. Porta la sua firma un libro uscito qualche tempo fa in italiano, La vita di Gesù, che ricostruendo un possibile testo originale in aramaico dei Vangeli permette di risolvere molti dei problemi sollevati invece dai testi greci che ci sono pervenuti. Ora ha appena dato alle stampe in Spagna Los orígenes históricos del cristianismo, dove sintetizza in modo rigoroso ma accessibile al lettore non specialista tutti gli elementi a disposizione sull'argomento, mostrando come tutti convergano a confermare la realtà storica dell'uomo Gesù e la sua coincidenza con il Cristo predicato dalla Chiesa. Tempi lo ha raggiunto telefonicamente nel suo studio della Università Complutense di Madrid, dove è titolare della cattedra di teologia.

    In cosa consiste dunque il suo lavoro di storico delle origini cristiane?
    Nell'affrontare la storia da storico. Io tento di toccare con mano il Gesù reale. E il luogo in cui questi appare sono i Vangeli; per questo mi occupo di mostrare l'affidabilità e il valore storico di questi libri.

    E in che modo si mostra questo valore?
    In primo luogo a partire dalla loro antichità. Contrariamente a quel che continuano a scrivere tanti divulgatori poco informati o in malafede, ormai tutti gli studiosi seri concordano sul fatto che i Vangeli sono stati scritti nei primi anni di vita della Chiesa. La prima stesura del Vangelo di Marco e della fonte comune di Luca e di Matteo non è posteriore all'anno 40. Se si legge con attenzione la Lettera ai Corinti, databile con certezza fra il 54 e il 57, si vede che Paolo fa riferimento a un complesso di scritti che già erano utilizzati dalle comunità cristiane. E anche il Vangelo di Giovanni, certamente il più tardo, tradizionalmente considerato il più "spirituale" dei quattro, frutto di una lunga elaborazione, in realtà ha rivelato alla luce degli studi più recenti un valore storico eccezionale: anch'esso è stato scritto con tutta probabilità originariamente in aramaico, e in una data che non può essere posteriore al 60.
    Eppure continuano a prevalere versioni differenti. In Italia ad esempio sta avendo successo l'ultimo libro di Bart D. Ehrman, che accusa la Chiesa di avere "corrotto" i testi originali per affermare la "sua" versione del cristianesimo, spazzandone via altre. Sulla rivista MicroMega il direttore, Paolo Flores d'Arcais, ha riproposto le tesi di Ehrman, supportandole con quella che lui definisce «la critica scientifica più accreditata».
    Sono tutte balle. In realtà tutti questi autori non aggiungono niente di nuovo a quel che aveva già scritto più di ottant'anni fa Rudolf Bultmann, il primo a separare il "Gesù della storia" dal "Cristo della fede". Ma la tesi di Bultmann si basava sull'ipotesi di una redazione tarda dei Vangeli - non prima dell'80, quello di Giovanni nel II secolo - che è stata spazzata via dalle scoperte successive. Inoltre, se quel che dicono fosse vero, questi studiosi dovrebbero solo stare zitti: se i Vangeli non ci parlano del Gesù vero, neanche loro possono dirne niente. Tutti i Gesù alternativi che ci propongono sono frutto solo della loro immaginazione.

    Oltre all'antichità della redazione, ci sono altri argomenti a sostegno dell'affidabilità dei testi evangelici?
    Certo. Tutti i criteri di storicità che gli studiosi normalmente applicano alle fonti storiche, se utilizzati sui Vangeli funzionano perfettamente. Ad esempio il criterio della coerenza interna, cioè il fatto che un avvenimento o un personaggio sia inserito in un contesto storico, culturale, psicologico, geografico credibile, coerente con gli altri dati che conosciamo sull'ambiente. E questo nei Vangeli accade perfettamente: tutto quel che raccontano è coerente con la conoscenza che abbiamo dell'ambiente ebraico dell'epoca, e non avrebbe potuto essere ricostruito così precisamente da qualcuno che non ne avesse un'esperienza diretta. Anche il Papa nel suo libro sottolinea come il Gesù che esce dai Vangeli letti così come sono è una figura logica, coerente, sensata. Mentre, aggiungo io, le ricostruzioni degli altri studiosi sono figure parziali, deboli, irreali. Rispecchiano i pregiudizi ideologici degli autori più che la realtà storica.

    Si continua ad accusare la Chiesa di aver arbitrariamente scartato, per costruire il "suo" Gesù, tutti i cosiddetti vangeli apocrifi.
    Qui sì che l'aspetto storico è quasi inesistente. Se uno si prendesse la briga di leggerli davvero, si accorgerebbe che qui davvero non c'è nessun Gesù storico, solo delle dottrine, per lo più di tipo gnostico. E gli apocrifi sì che sono scritti in epoca tarda, da gente che non conosceva il contesto. Prendiamo per esempio il vangelo detto di Giacomo, quello che narra dell'infanzia di Maria: è evidente la totale mancanza di conoscenza delle abitudini ebraiche dell'epoca. Per questo la Chiesa non li riconosce come fonti per la conoscenza di Gesù: perché non raccontano fatti.

    E qui torniamo alla questione dell'autorità della Chiesa, e a quella connessa del rapporto tra fede e conoscenza storica: è necessaria la fede, è necessario passare attraverso la Chiesa per una conoscenza adeguata dei Vangeli?
    Facciamo un esempio. Se uno vuole capire una poesia d'amore, sono sufficienti la competenza linguistica, la conoscenza della biografia dell'autore, la consapevolezza del clima culturale dell'epoca? Evidentemente no: occorre che il lettore faccia una esperienza d'amore, altrimenti rimane inesorabilmente fuori dal significato della poesia. Così il Vangelo comunica un incontro, un'esperienza: solo dentro questo incontro, questa esperienza si capisce davvero il loro racconto. Non per nulla fin dall'inizio venivano letti durante i raduni delle comunità: perché rendevano esplicite le ragioni, le origini dell'esperienza che la comunità viveva. Erano concepiti per rendere ragione ai cristiani di quel che vivevano, non per raccontare Gesù ad altri. È impossibile leggere davvero i Vangeli fuori dall'esperienza della Chiesa. È, mi sembra, la posizione del Papa: che dà totale fiducia alla storia - l'unico Gesù reale è il Gesù dei Vangeli - ma insieme spiega che anche per comprendere fino in fondo la storia occorre una riflessione che va al di là della dimensione storica.

    tempi




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